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Sardegna 2015 / falsa e bruciata

Reportage Sardegna 2015 | Di muralismo e streetart. Di spopolamento e accoglienza.

Parte 6

Falsa e bruciata (Un ragazzo di Iglesias descrive la sua città)

Nella zona di Iglesias i muri raccontano, a volte anche soltanto attraverso una scritta, la vita e la storia del posto e i murales si integrano con funzionalità nel tessuto civico. A Gonnesa (CI) e a Narcao (CI), essendo l’area un importante parco geo-minerario, i dipinti raccontano della vita dei minatori.

A Iglesias (CI), come ovunque nella zona, le miniere hanno segnato la vita del posto. Per molti anni la regione è stata al centro di un economia basata sull’estrazione di piombo, argento e zinco, economia quasi del tutto terminata se si escludono poche eccezioni. La chiusura delle miniere ha lasciato in uno stato di profonda depressione l’Iglesiente, che al momento è una delle zone più povere d’Italia. Qui, le enormi costruzioni abbandonate delle miniere, alle porte della città, rappresentano bene il clima che si respira in un luogo che non ha saputo trovare un’alternativa al vecchio sistema economico e a cui è probabilmente mancato anche l’appoggio necessario a riconvertirsi. Dalla fine della II guerra mondiale fino ai nostri giorni le miniere dell’Iglesiente sono passate, senza soluzione di continuità, dalla proprietà privata a quella statale a quella regionale, perdendo di volta in volta minatori per strada, fino ad arrivare (quasi) tutte a chiusura. (https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_mineraria_della_Sardegna). L’area oggi fa parte del Parco Geo Minerario Storico Ambientale della Sardegna uno dei più importanti siti di questo tipo in Europa e il primo del genere inserito in una rete tematica dell’UNESCO. Nonostante questo, ben pochi dei turisti che d’estate affollano la vicina costa, Carloforte o Sant’Antioco, arrivano fino a qui.

Ad Iglesias è possibile notare edifici dismessi, negozi con le saracinesche chiuse, cinema fantasma e, anche, scuole abbandonate. In una di queste, la palestra della scuola media Numero 2 di Iglesias, il writer Nero porta avanti il suo esperimento, N2. E’ facile immaginare che il calo, demografico e di disponibilità economica, abbia portato le istituzioni a decidere di chiudere una delle tre scuole medie della città. Quello che ne è risultato è stata l’area sportiva della scuola (palestra interna, campo da calcio e da basket esterni, con tanto di gradinate) per anni abbandonata. Nero, da tempo attivo nel campo del writing, ha lentamente conquistato la fiducia dell’amministrazione comunale, fino ad arrivare ad ottenere il permesso di realizzare le sue opere nell’area che, grazie a questo, ha ripreso ad essere frequentata ed è diventata un centro di aggregazione spontaneo e autogestito, in cui, oltre ai murales, si può giocare a calcio, basket, fare skate. La palestra, nel bel mezzo di una zona popolare, circondata da palazzoni, è tornata così ad essere un luogo animato e vissuto, e non una zona X lasciata nell’ombra. Attraverso l’iniziativa N2 world, inoltre, i ragazzi che frequentano la Numero 2, realizzano un festival di writing e hip-hop a cadenza annuale (https://www.facebook.com/events/479519308881401).

FOTO >

Ingurtosu (VS)

Ingurtosu (VS)

Ingurtosu (VS)

Ingurtosu (VS)

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Ingurtosu (VS)

Ingurtosu (VS)

Ingurtosu (VS)

Buggerru (CI)

Buggerru (CI)

Nebida (CI)

Nebida (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

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Carbonia (CI)

Carbonia (CI)

Narcao (CI)

Narcao (CI)

 

 

Narcao (CI)

Narcao (CI)

/// parte 2///

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Iglesias (CI)

Riassunto di 8 anni di NoExpo per chi l’ha conosciuto il Primo Maggio

Voglio fare un breve compendio di quello che è ed è stato il movimento NoExpo, dal 2007 ad oggi.

Questo pur consapevole dei rischi di superficialità e dimenticanze insite nell’operazione. Lo faccio perchè mi rendo conto che il numero di persone venute a conoscenza del movimento solo con le vetrine rotte e le auto in fiamme è insospettabilemente enorme; il numero di persone convinte che chi ha praticato la violenza rappresenti tout-court il movimento NoExpo ugualmente impressionante. Il potere dei mass-media mainstream cui siamo sottoposti, indissolubilmente legato ai vertici economico-politici, funziona perfettamente: quello che decide di mostrare viene creduto reale, d’altra parte nessuna spiegazione è richiesta dall’opinione pubblica. L’evento mediatico “devastazione” (termine usato dalla stampa, in cui è già implicita la sentenza) è il meccanismo che ha funzionato meglio.

A partire dalla visione del progetto iniziale di Expo si formano dei comitati, inizialmente locali, poi allargatesi a realtà ecologiste. Un esempio è il comitato NoCanal. Il progetto iniziale di Expo infatti prevedeva la realizzazione di una “via d’acqua” che sarebbe servita ad approvvigionare l’area espositiva, incentrata sull’agricoltura. Tale canale avrebbe addirittura dovuto essere navigabile, per lo scambio merci, il tutto a spese di tre parchi pubblici cittadini, tra cui il parco di Trenno, che avrebbero dovuto essere cementificati per consentire la costruzione del canale. Tra i meriti della mobilitazione NoExpo, quello di aver salvato quasi per intero queste aree verdi, riuscendo a far ridimensionare il progetto, vittoria segnata ben prima del 1 Maggio 2015.

Sempre per costruire la famigerata via d’acqua il comune di Milano e la regione Lombardia hanno provveduto ad espropri di terreni agricoli, allargando il consenso del movimento ad una fetta di lavoratori della terra che, magari, praticavano veramente agricoltura biologica.

Il tema dell’agricoltura ha anche portato il movimento ad interrogarsi sulla bontà degli slogan di Expo (“nutrire il pianeta”) quando sono stati resi noti gli sponsor dei vari padiglioni: McDonald’s (che per l’occasione ha rivisitato la sua veste comunicativa in chiave “green”), Coca-Cola, Nestlè, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es ecc… La spudarata ipocrisia di chi organizza una fiera mondiale sul delicato tema del cibo e della fame e lo fa con l’aiuto di chi disbosca l’Amazzonia, ruba acqua e petrolio all’Africa e sfrutta manodopera a basso costo in Asia ha portato ad avvicinarsi al movimento gran parte della galassia No-Global, presente sul territorio ed attiva per lo più (ma non solo) nei centri sociali.

E sempre a proposito di sponsor la questione della presenza di Eataly, guidata da uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Renzi, a cui sono stati affidati, senza bando, i due padiglioni principali, col gravoso compito di rappresentare l’Italia, ha contribuito al formarsi di ulteriori alleanze tra i NoExpo e quegli altri collettivi impegnati a decostruire la retorica del marketing farinettiano.

Quando Expo ha aperto i bandi per reclutare i lavoratori necessari durante i 6 mesi dell’evento, il movimento NoExpo si è allargato alle realtà del mondo sindacale, dato che per la maggior parte delle posizioni lavorative non era prevista retribuzione. Questione, quella del volontariato, a cui, nonostante le diverse promesse fatte da Expo riguardo la creazione di circa 70000 posti di lavoro (non mantenute), non si è riusciti a porre rimedio.

Nei contratti retribuiti stipulati, arrivati in prossimità dell’inaugurazione, vi è stabilito che il lavoratore  rinuncerà per la durata dell’evento al diritto di sciopero e che si renderà disponibile per lavorare in qualunque giorno della settimana. I più attenti attivisti nel campo dei diritti dei lavoratori hanno visto in questo una sorta di sperimentazione di nuove forme di sfruttamento da applicare, in futuro, a tutto il mondo del lavoro. E’ per questo che, anche grazie alla subdola scelta di inaugurare Expo il 1 Maggio, c’è stato un naturale confluimento dei movimenti che organizzano la MayDay parade nella mobilitazione NoExpo. La MayDay parade è, da almeno 15 anni, un appuntamento fisso a Milano e parte del più generale appuntamento europeo del 1 Maggio. Ogni anno porta in piazza le realtà del mondo antagonista nel campo sindacale e ha visto nascere realtà come San Precario, che hanno contribuito a creare massa critica e attiva attorno alle riforme del mondo del lavoro, a partire dalla legge 30/2003 in poi.

Nel frattempo venivano aperti i cantieri (i lavori sono per lo più ancora in corso) per la realizzazione delle 15 grandi opere, prevalentemente strade, connesse ad Expo. L’ironica combinazione che ha voluto queste infrastrutture costruite tramite cementificazione di terreni agricoli e la constatazione che a vincere i bandi siano state le stesse aziende edili impiegate nei lavori relativi ad altri ecomostri, ha rinsaldato la comunione tra NoExpo e altri movimenti di opposizione alle grandi opere, NoTav in primis.

Le questione degli esorbitanti costi di realizzazione dell’opera, ottenuti contraendo un debito con le solite banche private ha probabilmente avvicinato ai NoExpo quanti si battono per un uso della spesa pubblica utile al sociale: il movimento per il diritto all’abitare, giusto per citarne uno, in questi anni in rapida ascesa a causa delle decine di sgomberi che ogni giorno lasciano famiglie insolventi senza dimora.

Nel frattempo la magistratura incominciava ad indagare riguardo la corruzione negli appalti, scoprendo segreti di pulcinella e contribuendo ad allargare il consenso popolare attorno al movimento, almeno in quella fetta di popolazione ancora moderatamente dotata di spirito critico e non totalmente succube della narrazione mediatica dominante.

Poi c’è stato il 1 Maggio di Milano. Ogni forma di lotta ha il suo apice. A questa data il movimento NoExpo è arrivato così, dopo 8 anni di battaglie e anche di vittorie. Pure nella sinteticità e fretta (ho  ricostruito a memoria e non necessariamente in ordine cronologico) spero di aver reso un’idea della complessità della mobilitazione e della sua formazione.

Io credo che di questo dovremmo parlare. Di questo e delle prospettive future della lotta.

Riguardo gli scontri non voglio esprimere giudizio, anche perchè non c’ero e non tutto mi è chiaro. Per chi ha voglia di giocare al gioco del manifestante buono e di quello cattivo suggerisco la seguente raccolta di comunicati/articoli di movimento (in aggiornamento):

Dopo il corteo del 1 Maggio, riflettiamo per non cadere nella dicotomia tra “buoni o cattivi”.

Primo Maggio, su, coraggio – Una raccolta di contributi per il dibattito sulla #NoExpoMayDay2015

https://www.tumblr.com/danslarue1312/118069428379/lexpo-e-linternazionale-senza-nome-il-carattere

Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/02/corteo-no-expo-troppa-visceralita-nelle-reazioni-ai-black-bloc-di-milano/1645822/

http://www.informa-azione.info/milano_1%C2%B0_maggio_no_expo_sempre_complici_e_solidali_comunicato_della_rete_evasioni

http://ilmanifesto.info/storia/cento-colpi-di-spugna-tra-roma-e-milano/

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Il mio pensiero è per Klodian Elezi, ragazzo albanese di 21 anni, morto mentre lavorava senza dispositivi di sicurezza in un cantiere correlato ad Expo, nella fretta di terminare in tempo i lavori.

Cultura di serie A e cultura di serie B: i Teatri Nazionali

Il 1 Luglio 2014 è stato firmato un Decreto di Riforma del D.L. 163 del 30 Aprile 1985 che regola l’assegnazione del F.U.S., il Fondo Unico per lo Spettacolo, le sovvenzioni ministeriali. Tale riforma è stata voluta dall’allora Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray (governo Letta) e confermata dall’attuale Ministro, Dario Franceschini.

Qui il testo della Riforma.

Nello specifico delle attività del Teatro di Prosa il cambiamento principale consiste nell’abolizione dei Teatri Stabili e nell’Introduzione di una nuova classificazione: Teatri Nazionali, Teatri di Rilevante Interesse Culturale e poi altre categorie come Centri di Produzione e Teatri Regionali. Per capire cosa cambierà bisogna fare una brevissima presentazione riguardo quello che erano i Teatri Stabili.

Gli Stabili sono nati sotto la spinta teaorica e pratica di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che concretizzarono i loro sforzi nella fondazione del Piccolo di Milano, nel 1947. I loro sfrorzi teorici insistevano decisamente nel ruolo civile del teatro visto come “strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società”. Il concetto di “servizio pubblico” che l’istituzione della stabilità doveva garantire era il fulcro centrale di questa visione. Gli stabili sarebbero serviti, e di fatto così è stato, a far circuitare in Italia le produzioni teatrali creando scambi tra le più importanti realtà produttrici ma, soprattutto, portando le nuove creazioni anche nei più piccoli paesini. La funzione degli stabili nell’allargare la fruizione culturale, dalla città al paese, dall’alta alla piccola borghesia è stata fondamentale, in quanto, per accedere al F.U.S. stanziato dal Ministero, bisognava garantire un certo numero di repliche fuori dalla propria sede, di cui una parte sostanziale fuori regione.

Dal 23 Febbraio 2015 è stata resa nota la nuova geografia degli enti che andranno a spartirsi il F.U.S., cancellando gli Stabili. Si tratterà di 7 Teatri Nazionali (Milano, Torino, Roma, Emilia Romagna, Toscana, Veneto)  e di 3 Teatri di Rilevante Interesse Culturale (Palermo, Catania, Genova). Tutti gli altri centri saranno “relegati” a Centro di Produzione o a Teatro Regionale.

Saltano all’occhio alcuni aspetti positivi di tale riforma come ad esempio il carattere triennale del finanziamento che permetterà una maggiore capacità di pianificazione.

Altro aspetto positivo potrebbe riguardare il vincolo per un direttore artistico di rimanere in carica tra i 3 e i 5 anni: questa mancanza, infatti, ha rappresentato una delle cause principali di “stagnazione artistica” delle produzioni teatrali italiani, dalla fine delle avanguardie in poi. Senonchè tale indicazione nel testo di legge riporta la possibilità di una riconferma a fine mandato, cosa che presumibilmente comprometterà tale vincolo. Colgo l’occasione per ricordare che quella delle “turnazioni” delle cariche direttive è una delle battaglie importanti e esplicitamente rivendicate da realtà di spicco come ad esempio il Teatro Valle Occupato di Roma.

Altro aspetto potenzialmente positivo potrebbe essere quello dell’introduzione di un numero minimo di produzioni di teatro di ricerca per anno, cosa che, però, nell’astrazione più totale del concetto di “teatro di ricerca” risulta ridicola.

Venendo agli aspetti invece decisamente negativi vi è, in sostanza, quello della volontà di creare un circuito di serie A e uno di serie B, perchè questo è evidentemente un sistema economicamente vantaggioso, in barba allo spirito che aveva animato le intenzioni dei teorici degli Stabili.

Infatti i Teatri Nazionali dovranno rappresentare il 70% delle repliche delle loro produzioni in sede (addirittura il 50% di questo 70 nella sala principale e non in quelle minori) ed avranno il vincolo di non portare più del 20% degli spettacoli fuori regione.

Tale riforma è stata fatta passare, nel dibattito, come un tentativo di “europeizzare” il giro teatrale italiano favorendo gli scambi con l’estero, ma di questo nella riforma non c’è traccia, se non nella possibilità di coprodurre senza limite spettacoli con enti internazionali (per le coproduzioni nazionali c’è un limite.

Detto questo risulta palese che il primo effetto di tale riforma consisterà nella creazione di poli di produzione teatrali nelle grandi città, che porteranno fuori poco di ciò che producono e, quando lo faranno, sarà verosimilmente all’estero o in altri Teatri Nazionali e praticamente nulla nei piccoli paesi.

D’altra parte, tutti quegli enti che diverrano piccoli Centri di Produzione e Teatri Regionali non avranno budget sufficiente per acquistare spettacoli da grosse realtà produttive e difficilmente riusciranno a portare le loro creazioni in grosse piazze (con l’eccezione di qualche eccellenza) venendo relegate così alla circuitazione regionale e allo scambio con altri centri secondari fuori regione.

Il tutto alla faccia dello spettatore del paesino di provincia e in barba agli slanci civili di Strehler e Grassi

Riguardo l’Industria dello Spettacolo – (la logica del debutto)

11 Dicembre 2011: A seguito di un incidente durante il montaggio del palco per il concerto di Lorenzo Cherubini a Trieste muore Francesco Pinna, 20 anni, facchino.

4 Marzo 2012: A seguito di un incidente durante il montaggio del palco per il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria muore Matteo Armellini, 31 anni, rigger.

Dopo qualche settimana di dibattito d’occasione l’interesse attorno alle vicende legate al mondo del live si è spento, e nulla pare cambiato. Per capire quello che intendo dire non serve essere del settore e neanche assistere ad un concerto: basta saper leggere il calendario di un tour, dal sito di un artista a caso. Anche se molte case di produzione hanno rarefatto le date, quando un artista si esibisce per un giorno solo in una location l’intero spettacolo viene montato a partire dalla mattina e smontato la notte, dopo lo show. Ci sono naturalmente eccezioni, ma questa rimane la regola nelle produzioni che, per dimensioni, lo consentono. Senza contare i casi in cui si debbano sostenere più show in giorni consecuti ed in città diverse, anche un solo giorno di lavoro a condizioni del genere vuol dire lavorare circa 14-16 ore.

La questione della “logica del debutto” è, a mio avviso, una questione aperta tanto quanto connaturata, nel pensiero corrente, al mestiere dell’operaio dello spettacolo. Sempre avvallata nel corso del tempo, dai lavoratori, dai datori di lavoro e dai sindacati.

I primi non mancano, ogni volta che possono, di farsi male da soli. Ed è così che, mescolata alla vanità dello status di “lavoratore dello show business”, si è insediata nella categoria una competitività basata sul machismo che rende di fatto impossibile un discorso sindacale/solidaristico.

I secondi, è evidente hanno tutto il vantaggio a massimizzare le ore di lavoro al giorno e nessun interesse ad ingaggiare, eventualmente, doppie squadre per uno stesso lavoro. La concentrazione di più date in pochi giorni, inoltre, è una delle caratteristiche che rende redditizio un tour, il quale, ricordiamolo, da dopo Napster, rappresenta una fonte di reddito fondamentale per le produzioni musicali.

Dai terzi è inutile aspettarsi qualcosa di buono se, come si può vedere qui, hanno fallito anche la recente occasione per sfruttare lo strumento del Contratto Collettivo Nazionale. In quest’ultimo Contratto, infatti, come accade da molto tempo, sono dettati dei tempi massimi di lavoro settimanali da rispettare (40 ore) ma vi viene specificato che a contare è la media annuale degli stessi. Questo non pone di fatto alcun vincolo a situazioni logoranti e potenzialmente pericolose, anzi ne facilita lo sviluppo fornendo ai datori di lavoro l’escamotage per giustificarli. Nessun accenno inoltre viene fatto riguardo ai casi di più date in giorni consecutivi in location diverse, il che, quando si parla di un lavoro che si svolge prevalentemente in tourneé, equivale ad evitare volutamente un argomento scottante.

Del nuovo CCNL (valido per i lavoratori associati ad una Coop; siamo in attesa del rinnovo di quello relativo agli scritturati per il teatro di prosa) se ne è già parlato qui. Ma a parte questo, non si levano molte voci, anche dall’interno, contro la “logica del debutto”.

A suscitare la voglia di scrivere queste righe, a me, che lavoro nel campo da pochi anni, è stata la costatazione che anche le produzioni teatrali di personalità televisive, diciamo, “intellettuali” o “impegnate civicamente” vengono fatte circuitare secondo la stessa logica. Giornalisti, scrittori, opinionisti, che, avendo scoperto il live come modo di arrotondare e promuovere i loro scritti, imbastiscono spettacoli semplici nella scenotecnica (quindi poca spesa, pochi operai e tecnici impiegati nella realizzazione) che girano di città in città non fermandosi praticamente mai più di un giorno. La curiosità riguarda dunque il sapere se questi non riescono a rendersi conto dell’industria che muovono e delle condizioni lavorative che genera, magari assorbiti dalle loro questioni “alte” o se ne siano ben consci e le accettino come facenti parte del loro stesso sistema. Un discorso per il miglioramento della società, come ogni discorso “impegnato” dovrebbe essere, può essere portato avanti tramite un carrozzone fatto girare da operai che lavorano 14 ore al giorno?

Cito personaggi del mondo intellettuale per poter così calare un velo pietoso sulle personalità della musica pop. A questi infatti, semmai dovessi porre una domanda chiederei: vi siete mai accorti che quando suonate un giorno a Milano e, il giorno dopo, a Roma, il palco e tutta la macchina gigantesca che lo sovrasta è la stessa? Da persone intelligenti (?) non è mai sorto in voi il dubbio che questo comporti tempi e condizioni di lavoro degne di biasimo? Non credete che, al di là delle vuote e retoriche parole che vengono fuori a cazzo quando capita una tragedia, debba essere messa in discussione la “logica del debutto”?

A questa domanda non arriverà probabilmente una risposta. Quindi, anzichè attendere invano, invito tutti a rileggere la lettera degli amici di Matteo Armellini alla Pausini:

“Signora Pausini,
apprendiamo dai giornali del “dramma” che l’ha colpita e della sua intenzione di dedicare a Matteo i suoi prossimi concerti.
Ognuno ha diritto ad esprimere il proprio lutto nelle forme che ritiene più opportune, ma aver letto le sue dichiarazioni, riportate persino sui giornali di gossip, non può non farci pensare che Lei, Matteo, non sapeva chi fosse. Certamente non è così che chi l’ha veramente conosciuto avrebbe scelto di ricordarlo.

Ci rendiamo conto che i meccanismi dello show business, di fronte ad una tragedia di questo genere, impongono di assumere un contegno simile di fronte ai media. Ma è proprio a causa dell’ambiguità di questo cordoglio che sarebbe opportuno che Lei evitasse di farsi portavoce di un dolore che non le appartiene. Forse dovremmo arrenderci ai meccanismi pubblicitari e lasciare che la strumentalizzazione mediatica ci scivoli addosso.

Ma non possiamo farlo, non possiamo perché vogliamo e dobbiamo rispettare il nostro dolore e quella che sarebbe stata la volontà del nostro amico.
Le chiediamo pertanto pubblicamente di astenersi dal dedicare a Matteo i suoi concerti, di non nominarlo, di lasciare il dolore a una dimensione privata.

Al di là degli aspetti penali, che competono alla magistratura, ciò che non emerge di questa tragedia è il grave problema che riguarda il lavoro. Lo show business, per massimizzare il profitto a ogni costo, impone ritmi frenetici e condizioni di lavoro aberranti a una categoria già di per sé frazionata e debole, il tutto per garantire sempre allo spettacolo di andare avanti.
Lei scrive nella sua lettera che si sente impotente, che non può fare niente per cambiare le cose; allo stesso tempo, Jovanotti invita a una riflessione su come migliorare il livello di sicurezza, senza che però alle parole seguano dei fatti concreti.

Noi al contrario riteniamo che Lei, come tutte le Star dello spettacolo, abbiate il potere e il dovere morale di cambiare qualcosa, per far sì che tutto quello che è accaduto non si ripeta. Gli artisti sono gli unici che possono permettersi di dire no.
Questo sarebbe un aiuto concreto e una dimostrazione di sostegno per quella che Lei chiama “famiglia in tour”, ed eliminerebbe il dubbio che da questa tragedia derivi solo pubblicità per il suo personaggio.

E’ il rispetto del silenzio che chiediamo.

Gli amici di Matteo

Che fai l’11? Del perchè dovremmo vederci lo stesso.

L’11 luglio a Torino avrebbe dovuto esserci un vertice europeo riguardante la disoccupazione giovanile, a cui avrebbero dovuto partecipare rappresentanti del parlamento italiano ed europeo. L’occasione era data dall’inizio del semestre italiano di presidenza del consiglio della comunità europea, cominciato il 1 giugno. La data dell’undici luglio avrebbe quindi giustificato una presentazione dei progetti che il nostro governo avrebbe intenzione di mettere in campo in questo periodo di guida dell’istituzione europea per combattere uno dei problemi fondamentali (probabilemente “il” problema) riguardanti la società capitalistica che il progetto UE ha affermato e formato.

In vista del vertice i movimenti avevano organizzato una giornata di protesta lanciando l’hashtag #civediamol11 per chiamare in quel giorno un corteo nella stessa città ma non solo: per organizzare un percorso articolato in vari momenti di riflessione e di costruzione di alternative che avrebbe avuto un apice nella giornata dell’11 luglio. Un percorso fatto di assemblee, proiezioni, eventi, produzioni e che si sarebbe completato con alcune giornate di campeggio a Torino nei giorni della manifestazione.

Tutto questo pare sia stato vanificato. Il vertice è infatti stato spostato e nebulose sono le motivazioni di tale scelta. Ad ogni modo, quale che ne sia il motivo, appare chiaro che quantomeno una delle ragioni alla base della decisione sia stato il timore per le contestazioni annunciate. Non che intenda timore per lo scontro (chi si sognerebbe di battere sul piano fisico un esercito vero e proprio, quale è ormai diventato il corpo schierato dallo stato per ragioni di ordine pubblico) quanto piuttosto timore per ragioni di immagine legate al presentarsi, all’inizio del proprio semestre di presidenza, con un vertice su un tema così delicato contestato da decine di migliaia di persone. E sappiamo bene quanto all’immagine tenga il nostro nuovo governo.

Riguardo le contestazioni annunciate per l’11 posso testimoniare di una certa spaccatura all’interno dei movimenti riguardo le modalità della protesta. Da quello che ho potuto cogliere, seguendo le cose sul web, una delle critiche principali mosse ai movimenti è stata quella di organizzare una giornata di protesta per rispondere ad un vertice e di giocare quindi, se così si può dire, in replica al calendario dettato dalle scadenze istituzionali e non invece in maniera propositiva. Quello che è stato inotre fatto notare è che si voleva per di più rispondere ad un evento con una funzionalità di pura comunicazione, un vertice vuoto nel corso del quale i politici di turno non avrebbero deciso nulla ma si sarebbero invece solo incontrati ad uso e consumo del sistema mediatico che avrebbe poi creato una narrazione mainstream dell’accaduto.

Posso rispondere a queste due critiche brevemente. In primo luogo trovo che sia assolutamente giusto essere propositivi e creare momenti di lotta con una calendarizzazione nostra, ma credo che si debba comunque rispondere agli eventi di questo tipo calendarizzati dal governo. In secondo luogo credo che il fatto che il vertice sarebbe stato un contenitore vuoto di puro spettacolo non sia un motivo valido per disertarne la contestazione ma che anzi sia necessario, in tali casi, creare una contro-narrazione della realtà dei fatti (anche con la protesta oltre che con la comunicazione) volta a contrastare quella mainstream.

Per questi motivi trovo assolutamente significativo un eventuale spostamento del vertice in questione, come viene ventilato in questi giorni, a novembre nella città di Bruxelles. Lo spostamento del vertice in un campo ancor più inespugnabile dai movimenti italiani e praticamente alla fine del semestre di guida italiana confermerebbe sia il timore delle contestazioni sia l’inutilità effettiva delle decisioni prese in tale sede.

Ad ogni modo non sono d’accordo con la decisione di rinunciare alla data di mobilitazione per molti motivi.

– Perchè credo che il percorso intrapreso in vista della data dell’undici sia un percorso valido e non vorrei correre il rischio di minarlo eliminandone il momento culminante.

– Perchè possiamo, appunto, dettare una nostra calendarizzazione in cui incontrarci e portare all’attenzione dell’opinione pubblica un nostro tema.

– Perchè potremmo approfittarne per far passare il messaggio che il vertice in questione fosse un evento vuoto di pura formalità ed apparenza, mentre invence rinunciando alla mobilitazione facciamo passare il messaggio che fosse un evento in qualche modo di contenuto.

Lettera aperta ad un sindaco neo-eletto

Egr, [...]

Innanzi tutto voglio congratularmi con lei per lo straordinario successo ottenuto alle passate elezioni.
Segno indubbio della bontà del suo operato e della fiducia che molti cittadini ripongono in Lei.

Le scrivo perchè trovo significativa la sua vittoria nella città di [...], storicamente feudo della sinistra, soprattutto se messa in relazione alla sconfitta del partito di governo. Dico questo perchè voglio vedere nella sua vittoria, non tanto la vittoria del cittadino X sul cittadino Y, quanto piuttosto la vittoria di un movimento locale contro il PD. In quest'ottica infatti voglio riconoscere ai nostri concittadini la capacità che hanno avuto di evitare la trappola della vuota retorica del partito e di tutelarsi contro chi si sta distinguendo, in tutta Italia, come un'enorme macchina per l'assegnazione di grandi appalti per opere altamente impattanti quanto inutili e, più in generale, come un sistema verticistico e strettamente gerarchico.

Nel vuoto del sistema partitico italiano trovo di grande valore il suo risultato che è riuscito ad evitare le destre, il suddetto partito e i facili populismi a cinque stelle.

Senza entrare troppo approfonditamente nel merito le elenco in breve quali sono i principali appalti a cui mi riferisco. Naturalmente quando dico che il PD ha interessi in un determinato appalto mi riferisco o a lavori assegnati a costole dello stesso partito (Legacoop, CMC...) oppure a privati notoriamente sponsor o comunque vicini a suddetta area.

 Il partito democratico ha i suoi interessi nella realizzazione della seconda linea ad alta-velocità Torino-Lione (la prima, lo ricordo, è utilizzata solo al 30%).
Ha inoltre interessi nella realizzazione di altri tratti AV tra cui quello Bologna-Firenze.
Recentemente perfino renzi è arrivato ad ammettere le responsabilità del PD nella realizzazione del MOSE di Venezia.
E' implicato negli scandali dovuti all'assegnazione di appalti relativi ad EXPO 2015 Milano.

Anzichè continuare con gli esempi vorrei chiederle di vigilare sulla situazione in paese, poichè quello che viene applicato alla nazione viene riportato anche nel locale. La nostra zona ha una straordinaria vocazione naturalistica e architettonica che va preservata. Le voglio chiedere di esprimere subito un parere forte sulla volontà di bruciare rifiuti CSS nei forni delle cementerie. Le chiedo anche di prendere posizione sulla realizzazione della strada a scorrimento veloce che dovrebbe collegarci allo svincolo della superstrada (quando un altro collegamento veloce già esiste, dall'altro lato del paese...). Ho già avuto modo di scrivere la mia idea su queste due opere qui e non vorrei rubare altro spazio in questa sede.

Mi permetto solo di dirle che queste opere sarebbero oltremodo impattanti per l'ambiente, per l'aria che respiriamo (che già sfora i limiti consentiti del 90% ogni anno) e in generale per la dimensione archittetonica e paesaggistica del paese. Naturalmente la rinuncia ad alcune opere non può essere fatta senza un emancipazione da alcune parole d'ordine, ormai vuotate di significato, che sempre le accompagnano, come ad esempio "progresso"... E a questa riflessione va fatta seguire la consapevolezza di dover costruire e valorizzare un nuovo tipo di approccio al lavoro: la crisi ci ha insegnato che i cementifici seppure creano lavoro, creano del lavoro comunque incerto e che, in definitiva, tutti i lavori lo sono. Quindi vale la pena ripensare dove si vuol spostare l'ago della bilancia nel merito del rapporto con i cementifici della città.

Nell'ottica di un cambiamento tanto radicale di prospettiva, ne approfitto per darle solo un suggerimento valido come sperimentazione, in piccole aree, di processi volti ad aumentare il senso civico e la partecipazione: l'Autogestione. Incentivi l'individuazione di aree esterne o interne da far gestire direttamente ai cittadini, aree in cui si possa curare il verde, coltivare un orto, creare un ambiente per incontrarsi, creare street-art, ecc... E lasci, a chi prende l'incarico, la responsabilità di rispondere del risultato. Personalemente, lo trovo il miglior esercizio civico possibile.

Nel salutarla,
la ringrazio e le faccio i migliori auguri.

Di sindacati confederali e sindacalismo

Una recente disavventura personale al lavoro mi ha portato a contatto diretto con il mondo del sindacalismo italiano nel suo ruolo principe: la tutela del lavoratore.

La vicinanza alla lotta dei facchini della logistica bolognese (Granarolo, ecc…) mi aveva già fatto entrare in contatto con il lato malato del sistema sindacale. La dinamica con la quale molti lavoratori sono stati licenziati senza colpo ferire la dice lunga sulla condizione attuale del mondo del lavoro e sulla difficoltà per un lavoratore di trovare dignità. Il cappello calato sui lavoratori dai sindacati confederati rappresenta un peggioramento, se possibile, della situazione. Molte sono state, nei giorni di lotta dignitosa dei facchini, le denuncie di chi ha ricevuto promesse di mantenimento del posto in cambio di un tesseramento. Fatti portati, in almeno un’occasione, davanti al palazzo della CGIL. Se il recente Jobs Act non potrà far altro che peggiorare la condizione del lavoratore nel rapporto con il datore e nella possibilità di contrattazione, tanto più questo andrà a vantaggio dei sindacati confederali che accresceranno il loro potere.

Un esempio di come questi già da ora agiscano come braccio di partito è dimostrato, ad esempio, dalla lettera, firmata CGIL, ARCI e LIBERA, in cui si prendeveano le distanze dalla mobilitazione dei facchini, accorrendo così in adunata in aiuto a Legacoop, a sua volta inesauribile bacino di voti del Partito sedicente di sinistra.

Ma la mia, pur di per sè insignaficante, esperienza personale, mi ha fatto notare un altra sfaccettatura dello stesso stato di cose. Quello che segue, specifico, è relativo al caso particolare vissuto.

Durante le assemblee sindacali, a cui, nella mia azienda, erano presenti solo i tre sindacati fantoccio, ho notato che il potere di questi si definisce in una sorta di autoreferenzialità. I rappresentanti sindacali decidono le strategie e le modalità. I percorsi di conflittualità possibile e le proposte alterantive non hanno molte speranze di emergere. Ad ogni modo ogni azione viene incanalata in un percorso volto a portare all’attenzione del datore di lavoro, o comunque della controparte, la potenza del sindacato stesso e la sua organizzazione. Nessuna differenza di intenti traspare mai tra i tre diversi rappresentati dei tre sindacati. In ogni caso, la tendenza al cercare il meno possibile lo scontro e all’attesa prevale. Quando si delineano le unità lavorative che verranno eliminate vengono definite come merce di scambio nella contrattazione.

Questo delinea il sindacato come ente che lavora essenzialmente per sè stesso e per accrescere il suo potere in termimi di negoziazione con grandi realtà, ma quindi, sostanzialmente, di rappresentanza di un potere politico, sempre più a queste legato (vedi il caso PD-Legacoop-CGIL). Paradossalmente infatti, più il sindacato non rappresenta che sè stesso, più esso rappresenta qualcun’altro di più potente, un partito, ad esempio, o una grande corporazione.

Primo Maggio. Ancora su migrazioni e sindacalismo. E sex-workers.

Dopo il Primo Maggio e le relative giornate di lotta portate avanti in varie città, col pensiero in particolar modo alla piazza di Torino e alle tensioni dello spezzone dei movimenti col PD e col suo efficientissimo servizio d’ordine (pubblico + privato), oggi vengo a sapere di un ulteriore passo avanti delle riforme in merito al lavoro, portate avanti dal governo nella direzione della precarizzazione.

Seguitando il parallelismo cominciato con il post precedente vorrei portare un altro esempio riguardante al modo in cui, è una mia teoria, alcune emergenze sociali vengano tranquillamente tollerate perchè abbassano gli standard di riferimento di un’intera categoria professionale. Nel caso specifico vanno a deleggittimare l’ipotesi stessa di categorizzazione professionale.

Mi riferisco alle sex-workers.

Il caso dei centri massaggio cinese, che coprono, neanche troppo, attività legate alla prostituzione, è molto interessante. Questi centri sono fioriti un po’ ovunque nelle città come nei centri minori. Partendo dalle priferie arrivano, nelle realtà più grandi, anche a lambire zone del centro storico, in cui gli affitti sono più alti. Al proprio interno lavorano ragazze sulla cui storia personale poco si sa, ma, bisogna dirlo, poco si vuol sapere, considerata l’attenzione irrisoria dello stato al fenomeno. A Bologna, ad esempio, ricordo il caso di un centro che venne chiuso, qualche anno fa, per un periodo, per poi tornare in attività. Il motivo fu proprio il fatto che l’attività di centro massaggi nascondesse offerta di prestazioni sessuali.

Ora, riguardo le lavoratrici di questi centri, non posso fare a meno che pensare al fatto che esse saranno quasi sicuramente ragazze incappate in questo lavoro perchè emigrate in cerca di fortuna. Inoltre posso immaginare le loro misere paghe e i loro inesistenti diritti sindacali. Le giornate interminabili passate al chiuso di uno studio senza finestre e i rarissimi giorni liberi. Eppure realizzo anche che queste ragazze fanno in qualche parte di un sistema lavorativo. Che non lavorano in strada ma in un locale con altre colleghe. In un ambiente quindi tutelato da aggressioni, ad esempio. Inoltre, la qualifica di massaggiatrice, dovrebbe consentire loro, in qualche modo, di avere riconosciuta una professionalità e di lavorare in regola.

A questo punto risulta stridente il parallelismo con le sex-workers italiane. Quelle tra loro che decidono liberamente di intraprendere la professione di lavoratrice del sesso, potrebbero avvantaggiarsi della libertà professionale propria delle lavoratrici autonome. Invece sono costrette a non vedersi riconosciuta questa possibilità, al doversi nascondere e spesso ad esercitare in strada, in luoghi magari isolati, esposte ai pericoli del caso. Nonostante i vantaggi derivanti burocraticamente dall’essere cittadine italiane esse vivono una situazione inversa rispetto alle loro “colleghe” cinesi. Inversa, nel disagio che accomuna entrambe.

Non vorrei essere frainteso: non sono un perbenista e non mi auguro che i centri massaggio cinesi vengano chiusi. Mi chiedo però se la tolleranza dello stato nei confronti di questi e il mancato riconoscimento professionale alle sex-workers italiane non siano diverse sfumature della stessa volontà di ostacolare la categoria professionale.

Verso il Primo Maggio: su migrazioni e sindacalismo

Siamo di nuovo alle porte del Primo Maggio e colgo l’occasione per fare qualche semplice parallelismo che ho in testa da un po’.

La celebrazione del Primo Maggio dovrebbe ricordare gli eventi del 1886 quando a Chicago la polizia sparò per ben due volte contro un corteo che manifestava per ragioni sindacali. A seguito di tali manifestazioni inoltre, l’anno successivo, 12 tra organizzatori e partecipanti agli scioperi vennero impiccati.

E’ chiaro che tutto ciò verrà tenuto come ogni anno lontano dalle retoriche che accompagnano l’evento a livello istituzionale. Il mondo del lavoro versa in una condizione melmosa e non per caso: la crisi stessa non basta a giustificare lo stato delle cose. La deregolamentazione (o nuova regolamentazione) che ci ha portato (parlo del caso italiano) nella merda in cui ci troviamo oggi, è cominciata molto prima. Tanto per ricordare un unico e significativo evento, la legge 30/2003 ha trovato, dopo la tragica morte di Biagi, pressoché nessuna opposizione. Ha preso anche il nome dal suo autore originale, nonostante sia poi in larga parte completata da altre menti “eccezionali”. L’opposizione ad una legge, che di fatto ha aperto le porte della precarietà in Italia, è stata perciò delegittimata alla radice, in quanto facilmente accostabile al gesto violento che ha posto fine alla vita del suo autore, in un clima di irrazionalità nazionale che mi lascia tutt’oggi perplesso, constatando quali sono le conseguenze (e dove i vantaggi) dell’omicidio.

La schifezza in atto nel mondo del lavoro in Italia trova legittimazione anche in altri processi. Nell’anno passato abbiamo assistito all’incidente della fabbrica di Prato in cui hanno perso la vita 7 lavoratori cinesi. Ebbene, personalmente, non credo affatto sia un caso che situazioni come quella dei lavoratori stranieri in condizioni che esulano ogni norma, passino sempre inosservate. In Italia (ma ovunque in Occidente) viene tollerata (voltandosi dall’altra parte) la presenza di industrie che impiegano lavoratori costretti ad una condizione sindacale/salariale inferiore alla media nazionale, perché la sola presenza di queste realtà rende la classe lavoratrice facilmente ricattabile. Essi stanno difatti lì a ricordare, a quanti hanno voglia di battersi per i propri diritti, che ci sono eserciti interi di lavoratori di ogni parte del mondo che mandano avanti sistemi di produzione a condizioni sindacali inferiori che non aspettano altro che l’occasione per entrare nel sistema produttivo italiano.

D’altra parte la de-localizzazione degli stabilimenti occidentali in zone del mondo con standard sindacali inferiori rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia. Il capitale esporta le sue aziende senza, naturalmente, garantire ai nuovi impiegati le condizioni sindacali dei vecchi.

Credo che i due problemi abbiamo due soluzioni, di difficile realizzazione, entrambe di vocazione internazionalista. Nel caso dei lavoratori stranieri in Italia infatti la sfida dei movimenti di lotta sindacale sta nell’attirare al proprio interno gli stranieri, magari che vivono una situazione di emarginazione, per aprire anche nelle loro coscienze la prospettiva di un miglioramento nel lavoro.

Il caso invece della de-localizzazione degli stabilimenti di produzione rende chiara la necessità di rafforzare le relazioni sindacali internazionali e l’esportazione di modelli sindacali stessi.