Cultura di serie A e cultura di serie B: i Teatri Nazionali

Il 1 Luglio 2014 è stato firmato un Decreto di Riforma del D.L. 163 del 30 Aprile 1985 che regola l’assegnazione del F.U.S., il Fondo Unico per lo Spettacolo, le sovvenzioni ministeriali. Tale riforma è stata voluta dall’allora Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray (governo Letta) e confermata dall’attuale Ministro, Dario Franceschini.

Qui il testo della Riforma.

Nello specifico delle attività del Teatro di Prosa il cambiamento principale consiste nell’abolizione dei Teatri Stabili e nell’Introduzione di una nuova classificazione: Teatri Nazionali, Teatri di Rilevante Interesse Culturale e poi altre categorie come Centri di Produzione e Teatri Regionali. Per capire cosa cambierà bisogna fare una brevissima presentazione riguardo quello che erano i Teatri Stabili.

Gli Stabili sono nati sotto la spinta teaorica e pratica di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che concretizzarono i loro sforzi nella fondazione del Piccolo di Milano, nel 1947. I loro sfrorzi teorici insistevano decisamente nel ruolo civile del teatro visto come “strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società”. Il concetto di “servizio pubblico” che l’istituzione della stabilità doveva garantire era il fulcro centrale di questa visione. Gli stabili sarebbero serviti, e di fatto così è stato, a far circuitare in Italia le produzioni teatrali creando scambi tra le più importanti realtà produttrici ma, soprattutto, portando le nuove creazioni anche nei più piccoli paesini. La funzione degli stabili nell’allargare la fruizione culturale, dalla città al paese, dall’alta alla piccola borghesia è stata fondamentale, in quanto, per accedere al F.U.S. stanziato dal Ministero, bisognava garantire un certo numero di repliche fuori dalla propria sede, di cui una parte sostanziale fuori regione.

Dal 23 Febbraio 2015 è stata resa nota la nuova geografia degli enti che andranno a spartirsi il F.U.S., cancellando gli Stabili. Si tratterà di 7 Teatri Nazionali (Milano, Torino, Roma, Emilia Romagna, Toscana, Veneto)  e di 3 Teatri di Rilevante Interesse Culturale (Palermo, Catania, Genova). Tutti gli altri centri saranno “relegati” a Centro di Produzione o a Teatro Regionale.

Saltano all’occhio alcuni aspetti positivi di tale riforma come ad esempio il carattere triennale del finanziamento che permetterà una maggiore capacità di pianificazione.

Altro aspetto positivo potrebbe riguardare il vincolo per un direttore artistico di rimanere in carica tra i 3 e i 5 anni: questa mancanza, infatti, ha rappresentato una delle cause principali di “stagnazione artistica” delle produzioni teatrali italiani, dalla fine delle avanguardie in poi. Senonchè tale indicazione nel testo di legge riporta la possibilità di una riconferma a fine mandato, cosa che presumibilmente comprometterà tale vincolo. Colgo l’occasione per ricordare che quella delle “turnazioni” delle cariche direttive è una delle battaglie importanti e esplicitamente rivendicate da realtà di spicco come ad esempio il Teatro Valle Occupato di Roma.

Altro aspetto potenzialmente positivo potrebbe essere quello dell’introduzione di un numero minimo di produzioni di teatro di ricerca per anno, cosa che, però, nell’astrazione più totale del concetto di “teatro di ricerca” risulta ridicola.

Venendo agli aspetti invece decisamente negativi vi è, in sostanza, quello della volontà di creare un circuito di serie A e uno di serie B, perchè questo è evidentemente un sistema economicamente vantaggioso, in barba allo spirito che aveva animato le intenzioni dei teorici degli Stabili.

Infatti i Teatri Nazionali dovranno rappresentare il 70% delle repliche delle loro produzioni in sede (addirittura il 50% di questo 70 nella sala principale e non in quelle minori) ed avranno il vincolo di non portare più del 20% degli spettacoli fuori regione.

Tale riforma è stata fatta passare, nel dibattito, come un tentativo di “europeizzare” il giro teatrale italiano favorendo gli scambi con l’estero, ma di questo nella riforma non c’è traccia, se non nella possibilità di coprodurre senza limite spettacoli con enti internazionali (per le coproduzioni nazionali c’è un limite.

Detto questo risulta palese che il primo effetto di tale riforma consisterà nella creazione di poli di produzione teatrali nelle grandi città, che porteranno fuori poco di ciò che producono e, quando lo faranno, sarà verosimilmente all’estero o in altri Teatri Nazionali e praticamente nulla nei piccoli paesi.

D’altra parte, tutti quegli enti che diverrano piccoli Centri di Produzione e Teatri Regionali non avranno budget sufficiente per acquistare spettacoli da grosse realtà produttive e difficilmente riusciranno a portare le loro creazioni in grosse piazze (con l’eccezione di qualche eccellenza) venendo relegate così alla circuitazione regionale e allo scambio con altri centri secondari fuori regione.

Il tutto alla faccia dello spettatore del paesino di provincia e in barba agli slanci civili di Strehler e Grassi