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Bologna, Blu, i suoi fan e i magnati.

blu xm

(La lettura di questo aiuta a comprendere il mio punto di vista e l’articolo che segue)

Veramente difficile dire qualcosa di sensato e lucido riguardo l’intera faccenda, prima degli stacchi di pezzi di street-art dai muri di Bologna, poi della cancellazione, con una passata di grigio, da parte dello stesso Blu, delle proprie opere.

Forse la cosa più sensata sarebbe partire da quando sono arrivato a Bologna, anni fa, e per la prima volta ho visto un pezzo di Blu. Era il secondo giorno che stavo in città e sono stato invitato da alcuni amici a raggiungerli in un centro sociale, XM24, in cui non ero mai stato. Quando stavo per arrivare, da lontano, ho visto il muro di questo capannone ricoperto di murales diversi da tutti quelli che avevo visto fino ad allora. La schematizzazione dell’evoluzione umana, della scimmia che diventa uomo per poi regredire davanti la TV, non la scorderò mai. Mi ha accompagnato da allora. Così come gli umanoidi, mezzi uomo mezzi ibridi tecnologici (che però dalla tecnologia sembravano più soggiagati che amplificati) che vedevo davanti al supermercato in cui facevo la spesa, o vicino la sede della mia facoltà. I primissimi pezzi, quelli, rarissimi, in cui, prima di passare alla pittura Blu usava ancora gli spray, vicino la rotonda di San Donato o in una serranda di via Del Borgo. Man mano ho cominciato a far caso alle opere di questo artista così insolito che oltre a creare cose belle da vedere aveva sempre qualcosa di profondo da dire.

E’ stato bello e importante vederlo crescere e sentirlo vicino, prendere parte alle cose cui partecipavo. Dipingere le facciate dei nuovi spazi liberati a Bologna, dipingere durante la street-rave-parade lungo via Stalingrado, dipingere le serrande di posti come la libreria Modo Infoshop. E’ stato doloroso vedere le suo opere cancellate, dopo lo sgombero di posti come il Livello57, a causa di un amministrazione comunale che ha messo molto più tempo di tanti cittadini a capire cosa stava succedendo sui suoi muri. E’ stato bello ritrovarlo in viaggio, a Berlino, non solo nei tre grandi murales di Kreuzberg (due dei quali hanno subito la stessa fine dei suoi lavori bolognesi), ma anche proiettato fuori dai muri del Tacheles. Si è rapportato a tutti i livelli con il mondo dell’arte ufficiale (dalla biennale del muro dipinto di Dozza, fino alla Tate Modern di Londra, ma non ha mai perso di vista le motivazioni alla base del suo lavoro. E anni dopo queste esperienze me lo sono ritrovato accanto, durante un corteo No-Muos, a Niscemi, Sicilia. Dove ha dipinto dei murales anti-militaristi. Ha girato il mondo (si pensi alle sue opere in sud-america) ed ora è tornato a Bologna.

Questa lunga introduzione serve a far capire un punto importante della vicenda: Bologna senza le opere di Blu è una città ferita. La vicenda del murales Occupy Mordor, sui muri di XM24, lo testimonia. (Chi dice che ora che il murales non c’è più a rimetterci è XM24 che rischia di nuovo non ha ben capito come stanno le cose. La differenza non la fa un disegno sul muro, ma il gesto e l’impegno collettivo che portano alla sua realizzazione)

Ripartiamo dunque: qualche settimana fa leggo un’intervista ad un curatore che starebbe organizzando a Bologna una mostra dedicata alla street-art, staccando le opere dai muri per metterle dentro un museo. Nell’articolo in questione la tesi del curatore è più o meno questa: da sempre ci si impossessa di oepre d’arte e le si pone in mostra, anzi così facendo le si conserva, anzi io sono yeah perchè ho preso anche quelle illegali, se avessi optato per un’intervento di restauro in loco (che nessuno ha chiesto…) avrei potuto operare solo su quelle realizzate legalmente, a me quello che importa è creare una discussione (che anche questa nessuno ha chiesto e ad ogni modo gli stacchi delle opere erano cominciati già da tempo) e se qualcuno degli artisti farà appello al diritto d’autore vuol dire che usa gli obsoleti mezzi del capitale. Non perderò tempo su questa intervista.

Sarebbe invece il caso di perdere un minuto sul finanziatore (di fatto) della mostra, Fabio Roversi Monaco, il quale è a capo di Genus Bononiae, polo museale cittadino, finanziato dalla Cassa di Risparmio di Bologna. Con l’aiuto di una serie di imprenditori, tutti fulminati dalla streetart sulla via di Damasco e tutti, guarda caso proprio ora, preoccupatissimi di salvare le opere dal deterioramento e dalla distruzione, Roversi Monaco dice di essere andato, in pellegrinaggio evidemente, in giro per fabbriche e capannoni abbandonati a vedere coi propri occhi opere destinate all’oblio e di aver deciso di salvarle. Consigliato, si intende, dai curatori di cui sopra. Fa sorridere che un massone, accentratore di cariche, amico dei palazzinari, presidente di Banche e fondazioni, che mi immagino gettare odio quando un’opera d’arte salva dalla speculazione un centro sociale (come ha già fatto Blu) all’improvviso si interessi alla streetart, proprio quando questa sia all’apice dell’appeal consumistico, della patinatura capitalistica, slegata, nella gran parte dei casi, da qualsiasi contesto urbano e muova molti soldini.

Fatto sta che sulla porcata di Bologna, al di là delle polemiche di infimo grado che hanno trovato posto sui giornali, molti degli artisti coinvolti hanno preso posizione per tempo.

Ericailcane, ad esempio lo ha fatto così.

Nemo’s, invece, così, criticando in certo senso il concetto stesso di street art, per come viene genericamente indicata, come un qualcosa simile ad uno dei bisogni che il capitale crea negli individui perchè possa lucrare sulla sua soddisfazione.

Soviet e Never2501 così, parlando di un processo di sottrazione e saccheggio.

Mentre Dem ha cancellato alcune delle proprie opere, assieme a Blu, come ad esempio quelle sulla facciata della prima occupazione di Bartleby.

Pochi giorni fa inoltre, è utili ricordare ai fini della contestualizzazione, l’Artista AliCè è stata condannata al pagamento di una penale, a causa di uno dei suoi murales in città.

Insomma per venire ai fatti tra stanotte e la giornata di oggi Blu ha cancellato tutte – o quasi- le sue opere presenti in città. E qui va sottolineato il secondo punto importante: una scelta così, da parte di Blu, non può che essere una scelta tremendamente dolorosa.

Il comunicato ufficiale è stato affidato al blog di Wu Ming ed è, a mio avviso, l’unico documento che abbia senso leggere al momento. Quindi, per continuare la lettura di questo articolo, è necessario che lo leggiate, ora.

Il gesto di Blu ha scatenato isterismi e sproloqui sia in rete che in città ma ha fatto anche venire a galla contraddizioni interessanti all’interno degli stessi ammiratori dell’artista e dato una nuova prospettiva al fenomeno street art.

Alcune considerazioni riguardo i detrattori di Blu:

-Non tutti sono daccordo con quanto fatto da Blu. Lo accusano ad esempio di aver agito egoisticamente. Eppure è evidente che intrinsecamente le opere di Blu siano di e per tutti, e che qualcuno voglia in qualche modo privatizzare quelle esperienze, la cosa più naturale è che esse spariscano. Se si ama Blu, non si può non capire questa dolorosa scelta. La sua arte è un’arte collettiva, non può esistere senza un contesto e una comunità che la significhi. Inoltre Blu non ha agito da solo: gli abitanti del quartiere, i ragazzi XM24 e Crash, la banda Roncati, lo hanno aiutato. La “sua” comunità lo ha appoggiato, perchè ha capito che stava facendo qualcosa “per” e “con” Bologna e non “contro” Bologna. Ovvero stava mostrando a tutti cosa diventerà Bologna se si avvallerà la visione “privatistica” di chi ha organizzato tale mostra: una città grigia.

-Alcuni dicono <<Ora che ha cancellato le sue opere su quei muri appariranno orribili tag>>. Eppure questo (come messo in evidenza ad esempio da @zeropregi) è un altro dei nodi del discorso. Fino a quando allargheremo le fila dei consumatori di street art patinata, disposti a spendere per comprarla, ignoranti al punto giusto delle origini del writing, sarà tanto più leggittimato chi vorrà relegare l’arte di strada in un museo, facendo distinguo insensati. A questo punto deve essere chiaro che non si può stare con Blu ed essere contro l’arte di strada, tutta. (E comunque sì: le cose sono legate! Streetart – writing – muralismo  e arte urbana hanno radici culturalmente diverse ma fare distinguo di valore in base ai quali assegnare o meno una presunta leggittimità ad esistere è una roba da imbecilli).

-Ancora su questo discorso: Cosa è degrado? i writer che fanno scritte e scarabocchi sui muri? Ma anche Blu, prima di diventare uno dei 10 streetartist più quotati del mondo (secondo il Guardian) ha cominciato facendo scarabocchi sui muri. Dunque la questione è controversa… La parete grigia, se vuoi, è una pagina bianca da cui ricominciare. Gli scarabocchi, se vuoi sono prove di giovani artisti. Il potere vede il “degrado” dove ha interesse ad arrivare con la speculazione e vede “arte” dove le opere sul muro hanno valore sul mercato!

-E ancora: come interpretare dunque, da parte del potere cittadino, le numerose iniziative antidegrado volte a ripulire le città da forme stilistiche verso cui non si dimostra neanche l’intenzione di un approfondimento; e volte alla criminalizzazione di giovani writer? E che dire dei militanti di Crash, denunciati perchè sorpresi a cancellare i murales di Blu?

-Alcuni temono che la cancellazione delle opere rappresenti una resa davanti all’avanzata di un altro degrado, questo si spaventoso e reale: quello della speculazione edilizia. Ma questa visione equivarrebbe alla feticizzazione delle opere di Blu, che sono, è vero, un simbolo di lotta alla gentrificazione, ma che non possono nè devono però sostituire l’unico antidoto all’avanzata del cemento: una comunità cosciente in lotta!

-Alcuni vedono nelle opere scomparse il pericolo di un processo di “degradazione” del territorio. Le opere lo abbellivano. E ora?… Ma anche qui sarebbe il caso di ricordare che le opere di Blu non servono ad abbellire un paesaggio, ma a testimoniare processi in atto e comunità che abitano dei luoghi. Il degrado, non solo a Bologna, è una delle scuse preferite dallo stato e dagli sciacalli amici di Roversi Monaco per reprimere i movimenti e privatizzare. Blu non può essere portato ad esempio di “lotta al degrado” in quanto nella maggior parte dei casi quello che le autorità chiamano degrado è creatività e aggregazione gratuita.

-Ad alcuni semplicemente dispiace per le opere. Si, Anche a me. Mi sento come se un lungo pezzo della mia vita, un terzo della mia vita, fosse stato cancellato. Mi sento ferito. Ma come dicevo sopra le opere in questione sono l’esito di un impegno collettivo. Sebbene le realizzi Blu, esse appartengono sempre ad una comunità (vedi i suoi lavori in Val di Susa). Se oggi Bologna è questo, tanto vale prenderne atto e ricominciare, da un muro grigio.

-Ad alcuni sembra che Blu abbia fatto qualcosa contro di loro e contro la loro città. E questa è l’accusa più incredibile, quella che fa apparire le contraddizioni maggiori. Basta pensare al caso di Berlino. Lì è stato chiaro a tutti che Blu ha cancellato i suoi murales, in accordo con la comunità punk che viveva nella zona, per loro, per appoggiare la loro battaglia contro la gentrificazione. Qui deve essere altrettanto chiaro che Blu si sta schierando dalla nostra parte: dalla parte di quelli che vogliono l’arte libera, gli spazi pubblici, le esperienze collettive. Sta facendo una cosa per noi e con noi. Se a qualcuno questo non torna, quel qualcuno non sta dalla stessa parte dell’artista, evidentemente.

-Riguardo questo fatto mi preme dire che trovo inaccettabile l’idea che i lavori di Blu possano avere una mera funzione consolatoria. Si, le cose vanno male, il capitalismo avanza, ma almeno quando vado a XM24 mi guardo Blu, che fico. Non capire il dolore e la ragione che sta nell’essere orgogliosi del proprio muro grigio è assai singolare per chiunque appoggi le idee e le pratiche messe in campo in spazi sociali come, appunto, XM24. Le opere di Blu sono mezzi e azioni che fanno parte di un discorso/azione anticapitalista in atto. Quando si dice di ammirare le sue opere bisogna prenderne atto.

-Per alcuni Blu, avendo in passato esposto in gallerie d’arte, non avrebbe il diritto di opporvisi, ora. Come se la sua fosse una protesta guidata da narcisismo o da motivi privati. Come se di mestiere non facesse, comunque l’artista. A tal proposito vale anche la pena ricordare gli episodi di censura alle sue opere. A Roma (nell’ambito del SanBa) e a Los Angeles (sulle pareti del MOCA).

E ancora:

-C’è chi dice (i curatori, soprattutto) che la mostra in questione offre la possibilità di un restauro e una conservazione delle opere quando, a mio avviso, parlare di “conservazione” e “restauro” riguardo l’arte di strada dovrebbe di per sè squalificare una persona dal ruolo di curatore artistico… (L’arte di strada non ha senso fuori contesto ed è effimera. Blu lo ha specificato per bene, col suo gesto)

-C’è chi dice che ha solo accresciuto l’interesse e l’attenzione nei confronti della mostra in questiona. Bene. Cerchiamo di usare l’attenzione e l’interesse in questione per dire una cosa semplice: La responsabilità di quanto accaduto è di Genus Bononiae, nella persona di Roversi Monaco e degli accondiscendenti curatori, e dei loro amici finanziatori! Quello che Blu ci sta mostrando è esattamente la città che traspare dalla loro visione privatistica dell’arte (e in genere).

-Inoltre, cosa avrebbe dovuto fare? Creare un’opera di denuncia, col rischia che venisse fagocitata dallo stesso sistema che voleva criticare? Il suo gesto, in un certo senso, è proprio esso stesso una performance artistica “per sottrazione”: ha cambiato il volto alla città e ha emozionato e fatto piangere molte persone!

Tanti altri sono i temi toccati dagli avvenimenti bolognesi:

– Cosa è veramente la streetart? Esiste in quanto tale, si riferisce ad uno stile, o è piuttosto una categoria fluida usata per mercificare e lucrare?

– Come affrontare in definitiva il problema della mercificazione delle controculture che, dal punk in giù, sono sempre state messe a profitto del capitale?

– Come affrontare la questione riguardante i Centri sociali e in generale gli spazi di socialità, sempre più a rischio e ridotti all’osso non solo a Bologna ma vere fucine delle novità espressive che nascono sul territorio.

In che ottica è giusto guardare le polarità pubblico/privato e personale/collettivo in una questione del genere? Le opere possono essere privatizzate in nome di un bene superiore, ma se l’autore le cancella si dice che sta agendo come se fossero sue, private. Le opere si vorrebbero pubbliche, di tutti, se l’autore le cancella, per mettere a fuoco il pericolo di una privatizzzione ci si dispera perchè sono opere pubbliche. Starebbe quindi lui sottraendo opere pubbliche a tutti? Se non lo facesse ne avvallerebbe però la privatizzazione. L’autore ha agito non da solo, ma con una comunità: dunque ha agito “con” e “per” la città. Pur sottrendogli delle opere. Mentre gli organizzatori, pur avendo agito in team, hanno deciso tutto da soli forti del potere datogli dalle possibilità economiche: loro si hanno agito personalmente, deliberatamente in maniera individuale sulla base di una autoassegnazione di competenza, sottraendo delle opere dal loro contesto.

Mi pare che Blu abbia fatto un bel po’ di cose belle con questo suo gesto:

-Intanto ha fatto rimanere di merda Fabio Roversi Monaco e i suoi amici curatori, che fino a ieri si crogiolavano nelle interviste parlando di Blu e dicendo che non aveva espresso alcun parere sulla mostra. Beh, diciamo che ora qualcosa ha detto…

-Ha realizzato, nel bene o nel male, una straordinaria performance artistica. Perchè arte non può essere solo qualcosa di materiale o estetico. Con questo gesto Blu ha cambiato il paesaggio urbano, ci ha emozionato (tristezza e gioia allo stesso tempo), ci ha fatto sperare e disperare, ha mandato un messaggio chiaro e ci ha dolorosamente messo nella condizione di rinunciare a qualcosa di bello, che forse davamo per scontato. “Se non è arte questa” (cit.).

-Ha messo in chiaro che i suoi sono “atti di cittadinanza” contro la gentrificazione, prima che opere d’arte. Ed ha in qualche modo rilanciato la domanda «Chi comanda in città? Chi decide?» centrale in numerose campagne politiche “dal basso” cittadine. Non solo: le sue opere non sono solo opere, ma agiscono e trasformano il territorio che le ospita e ispira. Accettare una loro decontestualizzazione equivarrebbe tout-court ad accettare una loro negazione. Mentre tenere in vita quelle opere è possibile, qualche modo, solo non rinunciando al proprio “diritto alla città”.

-Ha in qualche modo sottolineato l’importanza delle sue opere per la città. (ahinoi…)

-Ci ha scomodato. Ed a volte è necessario che sia così. Dalla confortante e quotidiana visione delle sue opere.

-Ha accettato di battersi rinunciando al diritto d’autore, il quale gli avrebbe consentito di evitare facilemente che le sue opere venissero esposte!!! Ma, per coerenza, criticando egli stesso il diritto d’autore in quanto mezzo che ostacola la libera circolazione del sapere, Blu non ha voluto appellarvisi. Questo anche la dice lunga sul personaggio…

-Ha inoltre messo l’accento sulle situazioni reali di fermento alla base di esperienze come la sua. La maggior parte dei suoi lavori si trovavano sui muri di spazi sociali autogestiti, gli stessi che questa città sta progressivamente eliminando, mentre si erge a salvatrice della street art. (Di Occupy Mordor è sopravvissuto solo un pezzettino di Atlantide).

Ma in definitiva ha soprattutto:

-Incollato gli organizzatori alle proprie responsabilità: volete una città in cui questo tipo di arte sia fruibile a pagamento? Bene, eccovi accontentati. Eccola. L’avete chiesta voi.

-Una volta per tutte ha detto: o sono per tutti o non sono per nessuno.

Altri dubbi, in attesa di una rielaborazione del testo:

– Quali sono i mezzi in possesso di uno street artis per far si che la sua arte non sia manipolata? (Esempio di Banksy). Ad esempio notare che un modo per essere liberi è fare (come mi ha detto si twitter @Arteria_antifa) “qualcosa che non è imposto” e, in definitiva, qualcosa di transitorio.

-Quali strategie possono mettere in campo gli streetartist per evitare che la loro opera favorisca i processi di gentrificazione? (Esempio di Spuistraat ad Amsterdam, dove l’intervento repressivo a posto fine ad una esperienza annuale di occupazioni salvando solo gli edifici resi “prestigiosi” da determinati interventi di street art. La qualcosa genera una frattura all’interno del movimento stesso, se ve n’è uno. E questa composizione – quella degli “streetartist” è proprio uno degli elementi di discussione).

-Quali strategie mettere in campo a Bologna? Dipingere tutto di grigio, proporre agli artisti di utilizzare solo muri pubblici, organizzare eventi di disegno pubblico collettivi o portare avanti altre forme di lotta? Si potrebbe provare a mettere il dito nella piaga dell’arte cosidetta “ufficiale” che, come fa notare qualcuno nei forum, attraversa momenti di empasse, anche a causa dei quali guarda al mondo streetart.

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Riflessione a parte:

Le opere di Blu prima che oggetti sono testimonianza di una comunità e opera di una collettività radicata su un territorio. Di conseguenza al cambiare di determinati fattori socio/territoriali esse mutano o scompaiono. Un pezzo di muro asportato dal suo territorio non può essere un’opera di Blu, checchè ne dica qualche prezzolato critico. Viceversa, la cancellazione collettiva delle sue opere – per mano della comunità stessa che quelle opere aveva visto nascere e sostenuto – è un’opera di Blu.

 

 

 

Roma 2015 – centro Baobab a Tiburtina. Emergenza migranti eritrei.

Dogane e Frontiere: di come le merci viaggiano e le persone affogano.

Scrivo queste righe per fare un appello: c’è bisogno di portare solidarietà ai migranti (soprattutto Eritrei) presso il centro Baobab di via Cupa, Roma (pressi stazione Tiburtina). Ci si può recare direttamente sul posto portando vestiti, cibo o medicinali e si troverà sicuramente qualcosa da fare. L’atmosfera è decisamente amichevole nonostante la situazione difficile. Naturalmente è un luogo in cui molte persono vengono per la prima volta a contatto con la nostra realtà, quindi un luogo di conflitto, tuttavia ben gestito e mediato. L’emergenza è rientrata ma c’è ancora da fare. La situazione presso il centro è gestita da volontari, ma, per sapere cosa portare ed essere informati, si possono seguire i profili Facebook di “Nuovo cinema palazzo” o “Libera repubblica di San Lorenzo“.

I ragazzi arrivati sono spesso in condizioni di malnutrizione e scarsa igiene. Hanno tra i 15 e i 25 anni per lo più, ma ci sono anche persone anziane e qualche bambino. Sono riscontrati casi di scabbia, ma comunque non è stato registrato nessun contagio in Italia, viste anche le caratteristiche della malattia, di difficile trasmissione e di facile cura (con una pomata). Sono svariate centinaia più di quelli che il centro potrebbe ospitare. Al Baobab si è allestito un presidio medico, una mensa e un magazzino per fornire vistiti di ricambio.

Riguardo il centro Baobab faccio mie le riflessioni apparse su questo articolo che ne delinea alcune ombre. Tra le luci, dico io, quella di essere l’unico centro autogestito dai migranti, pensato per i transitanti. Tra le luci anche la capacità dimostrata di aprirsi ed accogliere. Tra le ombre mi riallaccio all’articolo per sottolineare come a volte la presenza di questi centri e la loro capacità di accoglienza sia funzionale alla repressione di cui sono oggetto i migranti. Con la sua capacità di far sparire il disagio dalle strade, infatti, esso potrebbe rappresentare una giustificazione all’azione repressiva dello stato là dove nascono forme di aggregazione e resistenza consapevoli. Tra le ombre del centro, ricordiamo anche, l’essere stata la sede della famosa cena di Alemanno con Buzzi e Casamonica, venuta fuori durante l’inchiesta Mafia Capitale; anche se bisogna dire che il centro non risulta indagato. Resterebbe anche da chiarire se il centro prende o meno soldi pubblici per mantenersi.

Il suo direttore, Daniel Zagghay, in una video intervista dice di no. Tale particolare risulta importante per due motivi. Il primo riguarda la gestione dell’emergenza, la possibilità che qualcuno lucri alle spalle dei migranti in tale situazione. Il secondo apre un interrogativo su chi finanzia il centro.

Sul web qualcuno pare ventilare rapporti direttamente col regime eritreo. Qualcun’altro un collegamento con le rotte dei trafficanti di uomini. Per quanto riguarda questi ultimi non c’è molto da dire.

Per quanto riguarda il regime eritreo c’è una video inchiesta di Fabrizio Gatti, chiamata L’amico Isaias che ce ne ricorda alcuni tratti. Si tratta di una finta democrazia in cui il presidente, nominato da un’assemblea con funzione temporanea nel 1993, non ha mai indetto elezioni. Si tratta, cioè di una dittatura, di stampo tra l’altro militare. In Eritrea il servizio militare è obbligatorio, può durare tutta la vita (!) e impone di lavorare gratis per la propria patria. Nel frattempo la restante economia si basa esclusivamente su una scarsa agricoltura perche i ricchi giacimenti sono totalemente sfruttati dalle multinazionali occidentali (con il beneplacito del “presidente”) e nulla di quella ricchezza ricade sulla popolazione. Essenzialmente l’Eritrea si basa sugli aiuti economici di un mondo occidentale la cui colonizzazione non pare essere mai finita (vi ricordate di chi fù colonia l’Eritrea?).

Il regime da cui queste persone scappano, dunque, è possibile grazie al capitalismo. Anzi è necessario al capitalismo. Queste persone vi scappano e vengono a cercare rifugio nei paesi dove il capitalismo è di casa. Accoglierli è nostro dovere, oltre che loro diritto.

Perchè è anche colpa nostra.

 

P.S. Ribadisco che i volontari presenti in questi giorni al centro Baobab sono esterni al Baobab stesso. Sono lì per aiutare i migranti e i transitanti ed operano appoggiandosi alla struttura. Il centro inoltre è, genericamente, autogestito e uno degli scopi della nostra presenza lì deve essere di formare gli “ospiti” che arrivano all’autogestione.

P.P.S. Portate vestiti soprattutto da uomo, taglie piccole, biancheria e scarpe. Portate coperte e lenzuola. Portate medicinali, disinfettanti e pomate antiscabbia. Per la cucina prima chiedete perchè si rischia di accumulare cibo che va a male. Andate direttamente sul posto, da fare c’è e si respira una bella aria.

Qui le foto

Olocausto – la situazione degli Ebrei di Roma

“Scrivo questo articolo, memore di quanto avvenuto durante gli anni ’30 e ’40 del 1900, per denunciare la condizione degli ebrei in Italia oggi.

E’ in essere una condizione di discriminazione del popolo ebraico gravissima, del tutto simile a quella che ne precedette il genocidio, anni fa.

Dei circa 15 milioni di Ebrei presenti nel mondo, 130.000 vivono in Italia. Di questi circa 7.000 vivono a Roma, dove si registrano le situazioni di maggior disagio sociale. Gli Ebrei sono odiati da tutti e da tutti additati a nemico pubblico. Se ognuno ha le proprie antipatie, pare che tutti gli italiani siano daccordo nell’odiare gli Ebrei. Tutti li ritengono ladri e pericolosi a prescindere. A tal punto è radicato il pregiudizio sembra essere diventato ontologico. L’assioma ladro-Ebreo è da tutti riconosciuto come vero e non necessità prove. Talmente forte è questo sentimento anti-ebraico che questa popolazione è diventata il capro espiatorio delle frustrazioni di tutti per qualsiasi risentimento.

Tale pregiudizio causa una situazione di evidente segregazione concretizzatasi in una vera e propria frattura sociale la quale viene giustificata dagli italiani con la sentenza secondo la quale “gli ebrei non si vogliono integrare”. Gli Ebrei stessi dicono di volersi integrare, che io sappia, senza rinunciare alle loro tradizioni, che certamente non includono il malaffare! In generale sono rarissimi gli esempi di integrazione degli Ebrei, che non trovano posto nel mondo del lavoro, perchè nessuno li vuole. Non sono rari i casi di rivolte dei genitori quando un loro figlio capita in classe con un Ebreo. Particolarmente odiosa è poi questo astio degli italiani contro i bimbi Ebrei, che sicuramente colpe non hanno e che pure vengono visti come dei ladri in potenza, già marchiati dal loro destino di farabutti e quindi da schivare e da cacciare anche quando, ad esempio, entrano in un bar a chiedere un bicchiere d’acqua.

A causa della situazione di estrema povertà è facile vederli elemonisare o raccattare rifiuti dai cassoneti, vestiti di stracci e sporchi. Tale condizione, anzichè suscitare un moto di pietà, non si sa perchè, suscita un sentimento di disprezzo per il povero, in quanto probabilmente fastidioso alla vista. Tanto è stigmatizzato questo popolo che il cassonetto deturpato e i rifiuti lasciati sul marciapiede indignano gli italiani più della madre che ha cercato in quel cassonetto gli stracci per coprire il figlio. Certo, come tutti i poveri, molti di loro rubano. Ma a nessuno di loro questo rubare è perdonato, in quanto poveri. Essi dovrebbero lasciarsi morire di fame. In più, la loro condizione di reietti, già misera, è aggravata da una serie di leggende particolarmente odiose e infide, che li vuole segretamente ricchi o addirittura ladri di bambini. Tralasciando l’ignobile storia dei bambini (mai un caso riportato negli ultimi 30 anni) l’attenzione morbosa degli italiani si concentra su di loro quando si scopre che qualcuno di essi ha un cospicuo conto bancario o un auto di lusso. Dimenticano, gli italiani, che se si vive in una baracca non si pagano mutui e affitti e che accumulare denaro (in nero, perchè nessuno ti assume) è più facile. Dimenticano anche che se si è nomadi l’auto è un bene di prima necessità. Dimenticano, ad ogni modo, che possedere qualcosa, se non si prova che sia stato rubato, non è un reato; ma evidentemente gli italiani negano tale diritto agli Ebrei.

In generale queste popolazioni sono costrette a vivere ai margini delle città. Essendo popolazioni di tradizione nomade si è generata attorno ad essi una confusione subdola che li vuole rifiutanti la fissa dimora. Perciò questi vivono per lo più in baracche e campi in condizioni di emergenza sanitaria. In questi campi vivono solo persone della stessa etnia. Con leggi ad hoc lo stato italiano ha deciso di “aiutarli” secondo la logica dei campi e non secondo quella delle case popolari, anche per quelli che tra di loro sono cittadini ialiani; questo in aperto contrasto con la loro dichiarata volontà di integrazione. Attorno agli appalti per la gestione di suddetti campi si sono concentrati interessi mafiosi che hanno arricchito le tasche di pochi imprenditori collusi colla politica e che hanno fatto sì che la situazione nei campi degenerasse per la mancanza di servizi. Si vive senza bagni, in baracche in cui piove, cucinando all’aperto, in aree da cui nessuno porta via i rifiuti. Questa situazione è usata da molti politici per la propria campagna elettorale. In alcuni di questi campi la povertà è talmente alta che l’unica alternativa per gli abitanti è farsi pagare per far smaltire abusivamente a terzi rifiuti nel territorio del campo. Questo aumenta i rischi per la salute degli Ebrei che lì abitano e l’indignazione degli italiani che vivono nei paraggi e non sopportano il degrado di tali zone, in un circolo vizioso che si autoalimenta.

Daltronde chi vive in un campo non ha molte probailità di trovare lavoro: questi campi vengono costruiti o sorgono abusivamente in zone lontane dalla città. Gli Ebrei danno fastidio alla vista, tutti sporchi e schifosi come sono. Spesso, da quelle zone è difficile raggiungere il centro città perchè non ci sono mezzi di trasporto. Spesso, gli abitanti del campo rimangono per giorni interi nel campo, non riuscendo ad uscirne e non avendo un lavoro, in una condizione di progressivo degrado umano e sociale. La povertà dilaga. I servizi sociali mancano. Si sono registrati casi di bambine che accettavano di fare dichiarazioni contro il loro popolo, ad un giornalista, in cambio di 20 euro.

I media, in effetti, hanno una grave responsabilità in questa situazione, colpendo gli Ebrei quotidianamente con articoli infamanti in cui si confermano i peggiori luoghi comuni nei loro confronti, spesso senza fondamenti alcuni, oltre alle dichiarazioni degli stessi lettori ignoranti di tali giornali. Gli Ebrei, in effetti, fanno notizia ma solo quando rubano.

Altra grande responsabilità la hanno i politici, che nutrono il pregiudizio nei confronti degli Ebrei per poi sfruttarlo in campagna elettorale, considerando il popolo italiano sempre più impaurito e povero di strumenti critici. In questi anni abbiamo visto politici urlare di distruggere con le ruspe le baracche dove gli Ebrei vivono senza avvertirli, insultare gli Ebrei definendoli feccia in televisione, incitare gli italiani a farsi “giustizia da soli”. Tanto che molti ormai in Italia dichiarano di essersi armati e di essere pronti a sparare se un Ebreo dovesse entrare nella loro proprietà. A fronte di questa situazione tragica da un lato, pronta all’esplosione dall’altro, tutti sembrano aver scordato che gli Ebrei sono, in maggiornanza, di cittadinanza italiana.”

Ora sostituite alla parola “Ebrei” la parola “Rom” e avrete una fotografia della situazione dei Rom in Italia. Ma con la parola Rom, il sentimento di indignazione non scatta.

L’idea di questo articolo mi è stata data dalle parole di Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 Luglio, ascoltate nel reportage Romanì de Roma.

Oggi, a Bologna, c’è stata la manifestazione nazionale delle popolazioni Sinti e Rom. Per quanto io provi a pensare che rubino e commettano tutto quello che gli viene imputato non riesco a immaginarli come la parte più forte del conflitto di cui, loro malgrado, sono protagonisti.

Pensieri su Genova 2001

In questi giorni, a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, c’è un vociare ininterrotto su quello che è stato o non è stato il G8 di Genova 2001. Pochi ricordano il movimento che a quel G8 ha portato.

Nel 2001 si era in pieno fermento. C’era stato Seattle, c’era stato Porto Alegre e tutti avevano letto NoLogo. Il movimento No Global, o altermondialista, era un fenomeno forte, diffuso, consapevole e capillare. Dai licei fino alle punte più estreme dei professionisti e degli intellettuali si diffondevano idee ben precise di “un altro mondo possibile” da costruire.

Poi c’è stata Genova. Piazza Alimonda. La Diaz. Bolzaneto.

Per anni il movimento si è sfaldato. Diviso. Impaurito. Ognuno ha preso la sua strada. Ogni collettivo ha fatto la sua battaglia, cercando per lo più di non scomparire. Per riprendere il filo del discorso c’è voluto molto tempo e la crescente forza e determinazione dei movimenti contro le grandi opere, di lotta per la casa, per i diritti dei migranti… In larga parte, c’è voluta la crisi.

Scrivo questo articolo per mettere in chiaro un semplice concetto: a Genova c’è stata una responsabilità politica ben precisa, e parlare di Genova senza sottolinearlo è reazionario.

Ho letto una quantità di articoli disgustosi su Genova in questi giorni, ma quelli che mi hanno dato più fastidio non sono stati quelli palesemente fascisti dei paladini della polizia, ma quelli ipocriti e reazionari dei sedicenti democratici indignati con le “mele marce” della Diaz. Ho anche assistito ad una trasmissione televisiva in cui si condannava la vergogna degli avanzamenti di carriera dei responsabili di polizia all’epoca delle operazioni del G8, il tutto senza un accenno alla copertura che quelle azioni ha, quantomeno, permesso.

Io credo che questa sia ipocrisia.

Lungi da me difendere l’operato della polizia. La “macelleria messicana” non è definizione di noi compagni, ma che i poliziotti si siano comportanti in maniera schifosa è risaputo dal 22 Luglio 2001. Accusare adesso chi coordinò quelle azioni è, ripeto, ipocrita, e serve al sistema per un comodo scaricabarile, a distanza di 14 anni.

La Diaz e Bolzaneto, dove si è torturato senza pietà, sono stati atti premeditati della politica per mettere fine al movimento No Global e, in quanto tali, hanno avuto successo. Senza un’indagine sulle responsabilità politiche (italiane e non) non si va da nessuna parte, la ferità rimarrà aperta e gli intellettuali da prima serata non faranno altro che infettarla con discorsi devianti. Il problema della polizia italiana non consiste in “poche mele marce”: si tratta di una pianta velenosa in toto in quanto strumentale all’agire politico. Che poi la situazione sia aggravata dalla presenza al suo interno di fanatici della violenza è altro discorso.

Come buona pratica, termino col link di Supporto Legale: attraverso il sito si può donare per sostenere le spese legali di chi ha subito direttamente la repressione dello stato.

Gentrificazione, azione e reazione: il progetto Staveco, Bologna.

Il Comune e l’Università di Bologna hanno recentemente ufficializzato l’accordo per la realizzazione di Campus 1088, ovvero il progetto Staveco, un’area di 93.000 mq da trasformare in un centro universitario, sul modello, appunto, dei campus americani.

Dopo il recente intervento relativo al Lazzaretto e le relative ombre, Unibo ci riprova. L’area in questione si trova appena fuori i viali del centro storico ed è una zona che nel corso del tempo è stata adibita a varie funzioni di tipo militare, oggi abbandonata. A progetto concluso, nei piani di Unibo, nel campus troveranno casa i dipartimenti di alcune facoltà che al momento hanno sedi frammentate e sparse nel territorio bolognese (come ad esempio Informatica ed Economia) ma anche alcuni dipartimenti che hanno già una sede unitaria e ben funzionante e che verranno semplicemente spostati, vedremo più avanti perchè (ad esempio il DAMS). Inoltre il campus dovrebbe contenere anche biblioteche, mense, uno studentato, un’area commerciale (ebbene sì, pubblicizzata come “commercio in strutture di vicinato e artigianato di servizio” difficilmente proporrà beni economici), un Faculty Club (strutture ricettive per studenti, anche in questo caso di alto profilo, se guardiamo agli esempi delle Università internazionali a cui ci si ispira), impianti sportivi e un immancabile parcheggio (4oo posti). Dei 93.000 mq totali dell’area circa 42.000 dovrebbero essere edificati. Il che, a onor del vero, non è molto dissimile dalla conformazione attuale dell’area, che pure versa in stato di abbandono, e non dovrebbe quindi, restando così le cose, dar adito a proteste per questioni legate alla cementificazione. Dovrebbe però far sorgere qualche dubbio la constatazione che, per ottenere questi 42.000 mq, l’Unibo sta svendendo palazzi per un totale di… circa 40.000 mq. Nulla di strano in generale, dato che una riorganizzazione dell’assetto universitario potrebbe essere una cosa positiva, soprattutto per quelle facoltà, come accennato prima, frammentate nel tessuto urbano, senza una sede centrale. Ma quando si parla di svendita di patrimonio pubblico (in tempo di crisi non si può genericamente parlare di dismissione) bisogna andare con calma ed analizzare le cose da vicino.

L’opera in totale costerà circa 100 milioni di Euro e c’è già la presa di posizione di chi rivendica la necessità piuttosto di un investimento volto ad abbassare i costi per gli studenti. Il comune ha fatto la sua parte mettendo a disposizione l’area e rinunciando alla percentuale di profitto che gli sarebbe spettata, ma il grosso dei finanziamenti necessariamente arriverà dalla vendita dei palazzi storici che l’Università possiede in tutta la regione. E’ per questo motivo che la gestazione di Staveco è stata più lunga di quanto inizialmente prospettato, ma alla fine l’accordo con l’Agenzia del Demanio è stato raggiunto e anche il Ministero delle Economie e delle Finanze ha approvato il piano finanziaro di Unibo, che prevede la dismissione di 9 immobili, tra cui alcuni palazzi storici e due ville. Tra questi palazzo Malveggi-Campeggi, sito di pregio collocato in via Zamboni, sede storica di Giurisprudenza, Facoltà dalla sede tutt’altro che frammentata. Palazzo Marescotti-Brazzetti, via Barberia, immobile storico dagli affreschi e dai particolari archittettonici di indubbio valore artistico, in passato sede del PCI Bolognese e, da poco più di 5 anni, sede del DAMS, ancora fresca di una lunga e costosa ristrutturazione che l’ha reso uno dei dipartimenti più nuovi ed efficienti dell’Università di Bologna. Villa Guidalotti ad Ozzano dell’Emilia, palazzo cinquecentesco dai soffitti affrescati, il cui stato di inutilizzo non giustifica in alcun modo la svendita, soprattutto vista la possibilità che si è avuta nel corso del tempo di un suo impiego, ad esempio nell’ambito dell’Agraria e Veterinaria, problema a cui si è preferito rispondere come al solito col cemento, con la costruzione di un polo universitario al Pilastro (via Fanin). Villa Levi a Reggio Emilia, datata 1600 e più volte nel corso dei secoli oggetto di lavori, porta in sé i segni di almeno 4 correnti storiche e artistiche, l’ultima delle quali è il Liberty novecentesco delle sue decorazioni interne. Specifico per correttezza che altri palazzi, tra quelli messi in vendita, non hanno tale importanza storica e architettonica, ma quelli finora elencati mi sembrano abbastanza per una qualche riflessione.

Impossibile non mettere in discussione l’idea stessa di svendere (a chi? e cosa diventeranno?) palazzi storici del patrimonio pubblico per costruire un polo universitario che, con tutta la buona volontà, difficilmente avrà pregi archittettonici. Il patrimonio pubblico così perso non potrà essere recuperato. Se la crisi, causata dal capitalismo finanziario, è la responsabile che ha messo le istituzioni italiane nella condizione di svendere il proprio patrimonio e di dover creare sempre nuove speculazioni per sopravviere, è anche palese che gli unici a trarne profitto saranno quegli stessi speculatori che l’hanno causata e che riusciranno a mettere le mani sui suddetti palazzi storici a prezzi di saldo.

Se riguardo il nuovo progetto non ci sono, mi pare, particolari che facciano gridare allo scandalo, bisogna invece rivolgere uno sguardo preoccupato all’idea di città che traspare da tale scelta, da parte dell’amministrazione comunale. Infatti, anche se è stata abbandonata l’idea di trasferire in massa le Facoltà nell’area di Staveco, in funzione della creazione di un più aleatorio “polo dell’eccellenza” “ad alta vocazione internazionale” è chiaro che il dato appetibile ai fini elettorali per la giunta è quello del “decongestionamento del Centro Storico”. La città di Bologna senza i suoi studenti risulterebbe un enorme contenitore vuoto e, passatemi l’espressione, privo di senso. La più antica Università occidentale (1088, appunto, l’anno di nascita) ha infatti consentito a Bologna di distinguersi dalle sue anonime sorelle emiliane e, attualmente, porta 80.000 studenti l’anno in dote alla città trasformandola in uno dei centri più vivaci culturalmente (e ricchi) d’Italia. Unibo è, per numeri ed importanza, “la prima impresa dell’Emilia-Romagna”. Svuotare il centro storico, ripulirlo, riempirlo di costosi negozi per lo shopping e l’aperitivo, adibirlo a vetrina per turisti risolve sicuramente qualche grattacapo all’amministrazione. Ad esempio quelli legati all’ordine pubblico ed al decoro. Ma, in un’immagine, allontana dalle strade di Bologna la vita quotidiana, costituita dall’incontro tra gli studenti ed i commercianti del luogo.

La creazione di un campus inoltre rappresenterebbe una brusca rottura nelle abitudini aggregative degli studenti, perchè questo sposterebbe il baricentro delle giornate degli studenti, allontanandoli dal centro. Questo produrrà verosimilmente un ripiegamento nel privato e, per chi può permetterselo, nelle modalità di aggregazione a pagamento e, contemporaneamente, un’allontanamento dall’attuale Zona Universitaria (piazza Verdi, via Zamboni). Tale passaggio se non mediato e meditato costituirà un peggioramento della qualità della vita degli studenti, sempre più isolati e lasciati in mano all’imprenditoria immobiliare privata e al business dell’intrattenimento, sempre più incapaci di coltivare modalità di socialità e condivisione gratuita.

Allo stesso tempo, la Zona Universitaria, sempre sull’onda del ciclone per questioni legate all’ordine pubblico, cambierà lentamente pelle e vedrà sempre meno studenti. Come ho già avuto modo di dire qui, uno degli aspetti più preoccupanti delle trasformazioni in atto nella zona in questione è lo scollamento progressivo tra studenti e altri avventori di piazza Verdi. Ricordo che solo 10 anni fa c’era una tangibile vicinanza e continuità. Oggi, con gli studenti sempre più borghesi ed alienati da un uso massiccio di nuove tecnologie, ragazzi di strada e migranti vengono sempre meno a contatto con la vita studentesca, aumentando il loro grado di estraniamento e ingrassando le fila del disagio sociale. Da molto tempo si insiste col dire, da più parti e basandosi su esperimenti riusciti, che le emergenze sociali si combattono con l’inclusione, con la vicinanza solidale, con le operazioni culturali attive nei luoghi critici e, per tutta risposta, quello che si è avuto dall’amministrazione, è stata una continua e sterile militarizzione della zona in questione. Ora si cercano di togliere gli studenti di mezzo. Così sarà probabilmente poi più facile allontanare i senza dimora e passare una mano di bianco, senza risolvere veramente granchè. Cancellare così modalità relazionali gratuite e trasversali dovrebbe essere tabù in una città che in passato ha fatto vanto dei propri servizi sociali, oggi ridotti al lumicino.

Va inoltre anche messa a fuoco la questione del campus in sé per sé. Il concetto appartiene infatti alla cultura scolastica americana e, come ribadito anche dal sindaco, si tratta di un progetto “senza precedenti in Italia”. La cultura del campus infatti, dove gli studenti vivono tutti assieme, isolati dal resto della società, non trova riscontro nella nostra cultura, dove le città nascono nel tessuto urbano, mescolate con le botteghe degli artigiani e dei commercianti, a stretto contatto con la vita del luogo. Il territorio americano, con i suoi spazi enormi, le sue città recenti e prive di centro storico, la sua cultura nuova e iper-specializzata ben si offre alla modalità del campus. Ma da noi questa non trova riscontro e suona anche piuttosto stonata in un periodo in cui la retorica del mainstream è ben attenta a esaltare solo ciò che è tipico, locale e che appartiene alla propria storia e cultura. Ma senza andare tanto in là vorrei sottolineare la perdita culturale implicita nella scelta di togliere le migliaia di nuovi studenti che arrivano ogni anno a Bologna dal contatto diretto e quotidiano col tessuto cittadino. Perdita, beninteso, reciproca.

Gli studenti sono da sempre parte attiva nella vita e nelle vicende cittadine. Se l’afflusso in massa in città ha difatti trasformato il volto cittadino e ha causato un vertiginoso aumento dei costi della vita in alcune zone, è pure vero che questo ha determinato la ricchezza di alcune fasce sociali. Sugli studenti è stata fatta, in alcuni ambiti, una speculazione senza mezzi termini che ha determinato, ad esempio, l’innalzamento del costo degli affitti e dei beni nella zona universitaria. A questa è conseguito un cambiamento nel genere di attività commerciali presenti, con la comparsa di locali sempre più costosi ed esclusivi. Ora, perchè il processo di gentrificazione sia completo, bisogna togliere dalla strada tutti quei soggetti che reclamano lo spazio universitario cittadino come un diritto gratuito e non come un luogo commerciale, a cominciare dagli studenti.

Nel corso degli ultimi dieci anni si è combattuta una vera e propria battaglia mediatica (leggi: campagna elettorale) da parte dell’amministrazione, volta a creare un’emergenza degrado in grado di far leva sulla sensibilità più grossolana dei residenti (che votano) da contrapporre alla presenza fastidiosa degli studenti (che non votano). Problema questo al quale la giunta si prepara a dare un’eccellente risposta, grazie a Staveco. Eppure non posso che rilevare come l’emergenza degrado sia in realtà un fenomeno fittizio creato ad hoc nelle menti delle persone da una vergognosa ed asservita stampa locale ed alimentato coscienziosamente con lo svuotamento dei contenuti e delle attività culturali, con la desertificazione dei servizi sociali, con ordinanze repressive che svuotano la zona dai presidi commerciali creando di fatto i presupposti per la situazione che contemporaneamente si va condannando. Non posso inoltre non rilevare che il cambiamento di atteggiamento degli studenti, preoccupati solo di consumare (che si tratti di alcool o di vestiti) e incuranti della città, corrisponde al cambiamento di mentalità di una generazione cresciuta con i vuoti messaggi televisivi.

Il disagio sociale che si manifesta nelle strade della Zona Universitaria deve, a mio avviso, essere incanalato in forme culturali attraverso attività collettive, tenendo sempre a mente la storia artistica di Bologna, dal ’77 ad oggi, che proprio ad esso deve alcune delle sue esperienze più significative.

 

Per un dossier su Staveco: http://hobo-bologna.info/2015/01/30/inchiesta-staveco/

Nota: Le parti virgolettate sono prese dagli articoli citati nei link.

Cultura di serie A e cultura di serie B: i Teatri Nazionali

Il 1 Luglio 2014 è stato firmato un Decreto di Riforma del D.L. 163 del 30 Aprile 1985 che regola l’assegnazione del F.U.S., il Fondo Unico per lo Spettacolo, le sovvenzioni ministeriali. Tale riforma è stata voluta dall’allora Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray (governo Letta) e confermata dall’attuale Ministro, Dario Franceschini.

Qui il testo della Riforma.

Nello specifico delle attività del Teatro di Prosa il cambiamento principale consiste nell’abolizione dei Teatri Stabili e nell’Introduzione di una nuova classificazione: Teatri Nazionali, Teatri di Rilevante Interesse Culturale e poi altre categorie come Centri di Produzione e Teatri Regionali. Per capire cosa cambierà bisogna fare una brevissima presentazione riguardo quello che erano i Teatri Stabili.

Gli Stabili sono nati sotto la spinta teaorica e pratica di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che concretizzarono i loro sforzi nella fondazione del Piccolo di Milano, nel 1947. I loro sfrorzi teorici insistevano decisamente nel ruolo civile del teatro visto come “strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società”. Il concetto di “servizio pubblico” che l’istituzione della stabilità doveva garantire era il fulcro centrale di questa visione. Gli stabili sarebbero serviti, e di fatto così è stato, a far circuitare in Italia le produzioni teatrali creando scambi tra le più importanti realtà produttrici ma, soprattutto, portando le nuove creazioni anche nei più piccoli paesini. La funzione degli stabili nell’allargare la fruizione culturale, dalla città al paese, dall’alta alla piccola borghesia è stata fondamentale, in quanto, per accedere al F.U.S. stanziato dal Ministero, bisognava garantire un certo numero di repliche fuori dalla propria sede, di cui una parte sostanziale fuori regione.

Dal 23 Febbraio 2015 è stata resa nota la nuova geografia degli enti che andranno a spartirsi il F.U.S., cancellando gli Stabili. Si tratterà di 7 Teatri Nazionali (Milano, Torino, Roma, Emilia Romagna, Toscana, Veneto)  e di 3 Teatri di Rilevante Interesse Culturale (Palermo, Catania, Genova). Tutti gli altri centri saranno “relegati” a Centro di Produzione o a Teatro Regionale.

Saltano all’occhio alcuni aspetti positivi di tale riforma come ad esempio il carattere triennale del finanziamento che permetterà una maggiore capacità di pianificazione.

Altro aspetto positivo potrebbe riguardare il vincolo per un direttore artistico di rimanere in carica tra i 3 e i 5 anni: questa mancanza, infatti, ha rappresentato una delle cause principali di “stagnazione artistica” delle produzioni teatrali italiani, dalla fine delle avanguardie in poi. Senonchè tale indicazione nel testo di legge riporta la possibilità di una riconferma a fine mandato, cosa che presumibilmente comprometterà tale vincolo. Colgo l’occasione per ricordare che quella delle “turnazioni” delle cariche direttive è una delle battaglie importanti e esplicitamente rivendicate da realtà di spicco come ad esempio il Teatro Valle Occupato di Roma.

Altro aspetto potenzialmente positivo potrebbe essere quello dell’introduzione di un numero minimo di produzioni di teatro di ricerca per anno, cosa che, però, nell’astrazione più totale del concetto di “teatro di ricerca” risulta ridicola.

Venendo agli aspetti invece decisamente negativi vi è, in sostanza, quello della volontà di creare un circuito di serie A e uno di serie B, perchè questo è evidentemente un sistema economicamente vantaggioso, in barba allo spirito che aveva animato le intenzioni dei teorici degli Stabili.

Infatti i Teatri Nazionali dovranno rappresentare il 70% delle repliche delle loro produzioni in sede (addirittura il 50% di questo 70 nella sala principale e non in quelle minori) ed avranno il vincolo di non portare più del 20% degli spettacoli fuori regione.

Tale riforma è stata fatta passare, nel dibattito, come un tentativo di “europeizzare” il giro teatrale italiano favorendo gli scambi con l’estero, ma di questo nella riforma non c’è traccia, se non nella possibilità di coprodurre senza limite spettacoli con enti internazionali (per le coproduzioni nazionali c’è un limite.

Detto questo risulta palese che il primo effetto di tale riforma consisterà nella creazione di poli di produzione teatrali nelle grandi città, che porteranno fuori poco di ciò che producono e, quando lo faranno, sarà verosimilmente all’estero o in altri Teatri Nazionali e praticamente nulla nei piccoli paesi.

D’altra parte, tutti quegli enti che diverrano piccoli Centri di Produzione e Teatri Regionali non avranno budget sufficiente per acquistare spettacoli da grosse realtà produttive e difficilmente riusciranno a portare le loro creazioni in grosse piazze (con l’eccezione di qualche eccellenza) venendo relegate così alla circuitazione regionale e allo scambio con altri centri secondari fuori regione.

Il tutto alla faccia dello spettatore del paesino di provincia e in barba agli slanci civili di Strehler e Grassi

Contro la TV

Credo che la televisione vada eliminata.

Ho deciso quindi di creare un elenco, per forza di cose non definitivo e in aggiornamento, delle motivazioni più rilevanti che dovrebbero portare all’abolizione del mezzo televisivo.

– E’ un mezzo univoco. Presupporrebbe quindi una gestione partecipata ed orizzontale, al momento al di fuori dell’orizzonte delle possibilità.

– Annulla la costruzione dialettica. A causa della caratteristica di cui sopra e del tipo di contenuto veicolato indebolisce, in alcuni casi annulla, la capacità di costruzione di dialogo in maniera dialettica. Esprime, nei contenitori dedicati, una forma di dialogo non costruttivo e non basato sull’ascolto ma sulla prevaricazione. In parole povere in televisione si fa più ascoltare chi più è in grado di alzare la voce e catturare l’attenzione, non chi argomenta meglio.

– Azzera lo spirito critico. La continua proposta di produzioni culturali di bassissima caratura porta ad un abbassamento medio del livello di acculturazione. Uno degli argomenti principali dei sostenitori dell’utilità televisiva è quello che la televisione ha contribuito ad “alfabetizzare”. Verissimo. Possiamo dunque usare questo argomento per rilevare che per produrre un cambiamento sociale positivo il mezzo debba trasmettere contenuti di livello culturale superiore alla media. Invece, al momento, la prospettiva sembra essere cambiata e, con l’argomento della produzione accessibile a tutti, la qualità dei programmi veicolati è crollata. Ciò non solo non produce cambiamenti positivi: ne produce di negativi in quanto i soggetti che fruiscono tali programmi non saranno in grado di fare paragoni in merito al valore di un dato prodotto culturale.

– Afferma un’idea sminuente dell’essere umano-telespettarore. Proprio perchè a questo si rivolge in maniera bassa senza stimolare alcuna sensibilità intellettuale, implicitamente veicola il messaggio che il ricevente non sia ingrado di decifrare codici di maggiore difficoltà.

– Impone modelli estetici. Non solo attraverso la pubblicità ma anche attraverso i programmi trasmessi, la continua diretta veicolazione di contenuto porta con se una continua veicolazione di standard di vario tipo. Come ad esempio concetti, visioni del mondo, messaggi e, naturalmente, canoni estetici. L’imposizione come standard di un modello estetico (sia esso riferito alla corporeità che all’accessorietà) è causa di frustrazioni e fragilità poichè ogni campo di competitività lo è. La fragilità e l’insicurezza sono fattori che disincentivano la coesione sociale.

– Crea bisogni artificiali. Questi agiscono come i modelli estetici di cui sopra, dividendo la società. I bisogni vengono veicolati, come i canoni estetici, attraverso la ripetuta trasmissione di messaggi. Questa imposizione del discorso attraverso una posizione univoca della comunicazione fa si che “i messaggi” diventino “il messaggio” ovvero che prevalga, nel discorso comune, il minimo comun denominatore di tutte le trasmissioni: ciò verrà percepito come necessario.

– Genera paure. All’imposizione di un canone o alla creazione di un bisogno corrisponde la paura di non riuscire ad adeguarvisi/soddisfarlo. Questa paura è il motore prediletto del capitalismo in quanto la prima risposta a questo sentimento di disagio passa attraverso l’acquisto di un suppletivo alla propria posizione.

– Falsa la scala delle necessità. Attraverso la proposizione di valori dubbi veicola in modo discutibile la tensione dell’individuo nelle sue azioni.

– Divide la società. Spirito di competizione artificiale, paure, incapacità dialettica sono fattori ai quali si vanno ad aggiungere i casi di narrazioni falsate volte alla discriminazione di un gruppo particolare (vedi ad esempio le figure del Rom e del migrante nel discorso televisivo italiano). Tutto questo frammmenta la società in frange diverse per classe, religione, etnia, credo politico, locazione geografica (ecc…) incapaci di interazione positiva o esplicitamente ostili.

– Raggira la coscienza di classe. Una conseguenza tra le peggiori  dell’imposizione di modelli discutibili dal punto di vista dello status sociale è la definizione di modelli culturali fondati sulla ricchezza materiale. In tempi di crisi, in cui le masse dei nuovi proletari (cioè coloro che non possiedono nulla se non la loro forza lavoro) sono sempre più povere, l’ambizione all’adesione ad un canone improntato sulla ricchezza porta i giovani a rinnegare la propria realtà e a imitare il comportamento delle classi superiori. La negazione della propria classe di appartenenza, in favore di un imitazione della classe a cui si dovrebbero strappare dei diritti, nega la lotta di classe, storicamente mezzo di emancipazione sociale. Stabilendo di fatto uno stato di cose reazionario.

– Restituisce una prospettiva parziale della realtà che rappresenta. Finché la televisione non sarà partecipata, non riuscirà ad essere molteplice. Di conseguenza la creazione di situazioni privilegiate per la veicolazione delle proprie visioni del mondo è giocoforza pericolosa per la natura plurale della società.

 

Stabiliti questi punti si pongono alcune questioni:

– Come portare avanti una lotta con l’obiettivo dichiarato di porre fine alla televisione.

– Come veicolare i propri contenuti culturali nella loro pienezza. Dopo anni e anni di comunicazione volutamente degradata e tritata nelle sue complessità comunicare a tutti un messaggio culturale alto (attraverso qualsiasi mezzo, anche al di fuori del mezzo televisivo) si presenta come un’impresa difficile. La sfide consiste nel trovare un modo per renderlo comprensibile e soprattutto appetibile a tutti senza per questo volutamente sminuirlo.

– Come ricostruire la capacità dialogica. Questo diventa importante soprattutto in virtù dell’uso del social network e della rete che in generale ci si sta dispiegando davanti. Una sfida, ad esempio, consiste nell’affrontare dibattiti online senza cadere nella tentazione di ricalcare schemi imposti dalla televisione, secondo i quali è fruttuoso sostituire alle argomentazioni ragionate espedienti metalinguistici e prevaricazioni nella discussione.

Calabria – gallery del reportage 2014