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Sardegna 2015 / Non è tutto loro ciò che luccica

Reportage Sardegna 2015 | Di muralismo e streetart. Di spopolamento e accoglienza.

Parte 7

Non è tutto loro ciò che luccica (Scritta con lo spray sul muro dell’ex manicomio di Rizzeddu, Sassari)

Il discorso riguardo l’uso politico dell’arte pubblica, marginale nel mondo del writing, assume invece una certa centralità per alcuni street artist. A Sassari (SS), ad esempio, l’associazione aliment(e)azione ha realizzato due “operazioni” riguardanti la street art, organizzate in una serie di eventi miranti a coinvolgere i cittadini e a focalizzare il loro interesse sui “luoghi di confine”, ovvero “zone di disinteresse dove il paesaggio rivela a tratti aree residuali in cui la natura cresce spontanea e non disciplinata da un’azione invasiva, e a tratti spazi abbandonati trasformati in depositi-discariche in seguito alla cessata attività dell’uomo”. (http://alimenteazione.tumblr.com/streetartepisodi). I due eventi, svoltisi nel 2011 e 2012, hanno portato prima gli artisti Blu, Ericailcane e Tellas a lavorare su un capannone abbandonato, in via Sieni, e, l’anno successivo, Blu, Ericailcane e Moneyless a realizzare opere di grande impatto sugli edifici di piazza Aldo Moro. In entrambi i casi le opere si affiancano alle scritte e al writing locale. Secondo le parole degli stessi organizzatori “il fine era quello di avviare un percorso d’arte che restituisse ai cittadini la dimensione del vissuto urbano, mostrando loro la possibilità di un’interazione diversa con il contesto in cui viviamo, e risvegliando l’immaginario collettivo assopito dagli slogan delle multinazionali”. Proprio per questo l’associazione ha rifiutato la modalità agglomerante del festival in favore della pianificazione di una serie di eventi distribuiti nel tempo e legati, nello spazio, al contesto sociale in cui le azioni venivano a svolgersi, affiancando, alla realizzazione delle opere, la pratica del trekking urbano, la distribuzione di kit di sopravvivenza urbana e lo svolgimento di assemblee aperte, in spazi pubblici, riguardo temi artistici e sociali. Gli spazi in cui gli artisti sono andati ad operare, infatti, sono spazi di periferia. Riguardano, a volte, case popolari che si trovano, come nel caso di piazza Aldo Moro, nelle vicinanze di fonti di inquinamento elettromagnetico che rendono particolarmente alte le incidenze tumorali nel quartiere. Altre volte riguardano edifici recuperati dall’abbandono e occupati, sui quali si vuole gettare una luce per sensibilizzare la parte meno abbiente della popolazione riguardo i temi del diritto alla casa. Nelle opere ritroviamo i temi di maggiore criticità riguardo il territorio sardo: l’inquinamento, le servitù militari, la sudditanza rispetto al governo italiano, non a caso accompagnati dalla raffigurazione della bandiera con i quattro mori.

Dall’altra parte dell’isola, a Cagliari (CA), possiamo ritrovare intenti ed esperienze simili. C’è innanzitutto da dire che, riguardo i fermenti artistici, l’arte pubblica e la sperimentazione sociale, il capoluogo sardo sembra assumere un ruolo di rilievo nel panorama nazionale ed europeo. Non è un caso che, entrando in città, proveniendo da Quartu Sant’Elena, un graffito di grandi dimensioni dichiara “Cagliari is my NYC”. All’opera di writing, assodata nell’hinterland in paesi e frazioni come Selargius (CA), Sestu (CA), Dolianova (CA) e lo stesso Quartu Sant’Elena (CA) si è affiancata più di recente un’intensa attività artistica portata avanti, soprattutto in centro, da streetartist come Tellas, Crisa e La Fille Bertha, solo per citarne alcuni. Questo fermento ha trovato un momento di apice nella realizzazione della Galleria del Sale (http://www.cagliariartmagazine.it/galleria-del-sale/), che sorge nei pressi dello stadio, incastonando le opere realizzate nel bel mezzo delle scritte di ispirazione ultras dei paraggi.

Tra gli artisti presenti alla Galleria del Sale c’è anche Enea AC, uno dei più interessanti dell’area sassarese. Questo si pone stilisticamente in una posizione di passaggio tra il writing e la street art, fedele alle tecniche pittoriche e all’attitudine del primo (bombing, lettering…) ma capace di esprimersi tematicamente nella produzione di opere più complesse, che sembrano portare ad un punto di contatto le due discipline.

Nel quartiere Pirri, periferia Cagliaritana, ha preso vita, grazie alla volontà dell’associazione Domus de luna, l’esperienza di ExMè (http://www.domusdeluna.it/), un centro di aggregazione giovanile che catalizza attorno a sè ragazzi e adolescenti del quartiere impegnandoli in attività e laboratori gratuiti. ExMè si è insediato nei locali dell’ex mercato di quartiere, da tempo lasciati all’abbandono e diventati luogo di spaccio, ristrutturandoli del tutto e riqualificando la zona. L’Associazione Domus de luna ha coinvolto nel progetto decine di writer e street artist, in maggioranza sardi, e il casolare è ormai totalmente ricoperto di murales e sorge nel bel mezzo di una periferia piuttosto anonima e priva di servizi. La cosa interessante dell’operazione è che i murales vengono, nella maggior parte dei casi, realizzati come progetto finale di un laboratorio in cui gli artisti coinvolgono i ragazzi e li spingono a decidere temi e soggetti da rappresentare. I ragazzi stessi inoltre dipingono e si cimentano nelle varie tecniche che ogni artista gli propone. Quello che ne risulta è uno spazio-continuum di colori-forma, realizzato attraverso le tecniche più disparate, intervallato dai tentativi dei ragazzi, che inseriscono nei murales i loro messaggi. E’ così che si possono trovare scritte come “Pirri regna” o “Sconvolts” intervallate da pezzi d’autore, e questo pare proprio rispecchiare l’essenza di ExMè, dove tutto viene pensato per una fruizione partecipativa (non solo i laboratori artistici ma anche quelli musicali, teatrali, sportivi ecc….), in “un’isola” nel mezzo della periferia cagliaritana. Tra gli artisti più coinvolti nel centro ci sono Crisa, Skan, ManuInvisible, La Fille Bertha e Ufoe, per farne un elenco incompleto.

Un altro esempio cagliaritano di recupero positivo di un locale abbandonato, sebbene totalmente diverso per pratiche e fini, è Sa Domu, lo studentato occupato in centro. In questo posto, come spesso accade nei posti del genere, hanno trovato casa, oltre a decine di studenti che non potevano permetterselo, anche parecchi murales. Ad esempio quelli di Casciu/Tellas, Il Carbonauta, Skan, La Fille Bertha e del collettivo Volkswriter, tra i tanti. Lo studentato nasce come atto politico, di un’assemblea di studenti, riguardo il diritto allo studio e prende spazio nei locali di una ex scuola, abbandonata da tempo. Questi, ben consapevoli che la loro attività debba articolarsi attraverso un laboratorio permanente e aperto, piuttosto che attraverso la mera gestione di uno spazio fisico, hanno dato vita ad una serie di attività sociali e di riflessione politica sul diritto allo studio, aperte alla cittadinanza. Di queste riflessioni se ne può trovare traccia in un dossier (qui un estratto: http://www.infoaut.org/index.php/blog/culture/item/15044-una-domu-po-casteddu), autoprodotto di recente, in cui, a meno di un anno di occupazione, i ragazzi tracciano un bilancio delle loro attività e disegnano un profilo (abbastanza preoccupante) della situazione italiana riguardo la reale possibilità di formazione delle classi più povere. Nel libretto si parla esplicitimante della scelta di chi decide di non emigrare, nonostante le difficoltà e dell’intenzione di “rappresentare uno strumento politico per combattere l’emarginazione sociale e allontanare i giovani dalle sostanze stupefacenti”. Vi si prende inoltre chiaramente posizione in merito alle questioni dei fondi dedicati al diritto allo studio e alle politiche abitative svolte dalle istituzioni in Sardegna, pubblicando cifre e resoconti e indicando i principali progetti di speculazione edilizia in atto in città. Ma, se le attività e le riflessioni del collettivo sono l’anima del progetto Sa Domu, l’edificio che i ragazzi hanno liberato ne è la struttura che ne permette l’esistenza. I murales svolgono qui una funzione importante testimoniando la vitalità artistica che passa attraverso lo studentato e rendendo prezioso il luogo che ospita le esperienze politiche che vi si svolgono. A volte, come è stato nel caso di Xm24 a Bologna, il murales di Blu (http://ilovexm24.indivia.net/), possono essere uno degli strumenti con cui si portano avanti le battaglie e le rivendicazioni legate al diritto a rimanere in un posto che si è strappato all’abbandono.

Attorno l’area di Cagliari ci sono numerosi paesi notevoli per quanto riguarda la presenza storica del muralismo. Due di questi sono Villamar (VS) e Serramanna (CA). In quest’ultimo, in particolare, l’attività muralistica fù molto intensa a cavallo tra i ’70 e gli ’80 anche grazie alla Brigata Muralista Salvador Allende, formata da esuli cileni, che sviluppò un arte fortemente connotata politicamente, figlia dello stesso clima culturale orgolese, ma diversa stilisticamente. A Serramanna infatti si produssero murales di più grandi dimensioni e dalla forte caratterizzazione drammatica. Uno dei temi più ricorrenti era l’avversione antimilitarista verso l’occupazione di terre a scopo militare, situazione tuttora irrisolta.

Un altro paese fondamentale per la storia del muralismo sardo è San Sperate (CA). Qui sono stati realizzati i primi murales sardi, nel 1968, soprattutto grazie all’attività di Pinuccio Sciola, che ha saputo portare nel paese i fermenti culturali recepiti in Francia e Spagna durante quel periodo. L’artista è riuscito a coinvolgere l’intero paese con la sua idea e oggi San Sperate è chiamato il “Paese Museo” (http://www.paesemuseo.com/paesemuseo/) ed è in grado di richiamare l’attenzione di artisti da ogni parte del mondo, che vengono qui a lasciare la loro opera. Il muralismo a San Sperate ha caratteristiche prettamente artistiche: non ha urgenze politiche. Il paese intero è una vera e propria collezione, un caleidoscopio di stili e forme differenti che si articola non solo nei dipinti murari ma anche nelle sculture, nei bassorilievi e in alcune forme di installazione urbana. L’atmosfera culturale di San Sperate è incredibilmente poliedrica per un centro di 8000 abitanti: vi si registrano artisti come Angelo Pilloni, impegnato nella realizzazione di murales tradizionali, iniziative dedicate alla street art (http://writers.officinevida.eu/), alla progettazione partecipata degli interventi urbanistici (http://www.paesemuseo.com/paesemuseo/archivio-notizie/45-il-progetto-colore-identita-primo-classificato-alleuro-pa-di-rimini) oltre che esibizioni di musicisti e compagnie teatrali di livello internazionale.

Tra gli artisti presenti a San Sperate c’è ManuInvisible, particolarmente interessante perchè, in alcune sue ricerche, è possibile vedere un momento di contatto tra il muralismo sardo e la street art. ManuInvisible è uno dei più particolari streetartist dell’isola ed è possibile trovare suoi lavori ovunque. La sua attività lungo la SS131 e SS130 manifesta una determinazione e devozione non comune. Tra le sue opere vi sono alcuni ritratti, ispirati a personaggi del suo paese, realizzati con tecniche contemporanee come lo spray, il rullo e il dripping.

Appena prima di arrivare a Sant’Antonio Santadì (VS), all’imbocco del ponte per Marceddì (OR), sorgono i resti della palazzina Castoldi, abbandonata e isolata, in mezzo ad una collina di rovi. La palazzina era la casa di una famiglia nobile concessionaria dei diritti sulle peschiere, principale forma di sostentamento del luogo. Con la vittoria delle rivendicazioni dei pescartori e la fine di questo sistema la famiglia ha abbandonato la località e l’edificio. Andrea Casciu e Kiki Skipi hanno recentemente realizzato un murales su uno dei muri esterni della costruzione. Per vederlo è necessario lasciare la macchina e addentrarsi tra i rovi. L’opera è perciò accessibile solo a chi ne è a conoscenza. Non vuole intervenire ne rivalorizzare una struttura esistente. Trova però una sua collocazione e una sua ragione nelle rovine su cui è realizzata.

FOTO

parte 1

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

parte 2

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

parte 3

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

Cagliari (CA)

parte 4

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

San Sperate (CA)

parte 5

Tempio Pausania (OT)

Tempio Pausania (OT)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)v

Sassari (SS)v

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Sant'Antonio Santadì (VS)

Sant’Antonio Santadì (VS)

Sant'Antonio Santadì (VS)

Sant’Antonio Santadì (VS)

Monastir (CA)

Monastir (CA)

Dolianova (CA)

Dolianova (CA)

SS131

SS131

SS131

SS131

SS131

SS131

Sant'Antioco (CI)

Sant’Antioco (CI)

Sardegna 2015 / Introduzione

Reportage Sardegna 2015

Di muralismo e streetart. Di spopolamento e accoglienza.

Introduzione

Confrontarsi con la Sardegna per un continentale è in qualche modo confrontarsi con una realtà altra. Il suo essere “isola”, in senso culturale prima che geografico, e la sua vastità, accentuano le complessità di questa regione che a volte viene pensata periferica, rispetto al territorio nazionale, altre volte assume una centralità strategica.

Prima di poter andare a fondo è necessario averne una conoscenza d’insieme e il presente reportage è un tentativo di renderne un’immagine, complessa ma estesa, riguardo alcune tematiche di attualità.

Ho preferito, nei pochi giorni a disposizione, viaggiare in più zone possibile, in tutte le province. Ho preferito percorrere molti chilometri, anche per vedere le varie forme assunte dal muralismo sardo e confrontarle con quelle di opere più recenti.

Durante il viaggio è diventata mia intenzione accennare un ritratto dell’Isola.

A causa della vastità del territorio e del poco tempo avuto a disposizione, tale ritratto potrebbe apparire più simile ad una scansione, nella sua superficialità. Ma la sovrapposizione di vari livelli, come fossero lastre, potrebbe essere utile alla composizione di un quadro di insieme.

C’è la scansione del territorio, le isole attorno / il mare e le profondità che ne definiscono il colore. Le aree marine protette e quelle interdette / le coste, quelle con le lunghe spiagge desertiche e quelle con le scogliere a picco / i tronchi degli alberi, che vanno dal grigio dei pini vicino al mare al rosso dei sugheri, quando la corteccia è stata da poco asportata, nell’entroterra / gli altipiani che definiscono la strada quando si percorrono le vallate / la roccia grigia e friabile dalle parti di Buggerru, quella gialla oro nei dintorni di Lanusei / la macchia mediterranea, che diventa secca e gialla, salendo nelle montagne. I parchi naturali, la Barbagia, il Gennargentu. Gli scheletri del Supramonte.

C’è una scansione di determinate aree culturali i cui confini spesso non corrispondono a quelli delle province: la Gallura, la Barbagia, l’Ogliastra, il Campidano, il Sulcis…

La scansione dei reperti archeologici, che testimoniano le presenze antiche: nuraghe, domus de janas, dolmen.

La scansione delle città. Con Cagliari e Sassari come due poli opposti, una marinara, romantica e dura, fatta di vicoli e salite; l’altra cittadina, vasta e quadrata, fatta di viali e periferie.

Ci sono le aree industriali attorno a queste città. E le ampie pianure di stagni e sterpa. Macchiareddu, Molentargius.

C’è la scansione dei paesi. Che a volte sorgono in posti dove fino a 100 anni fa non c’era nulla. Apparentemente senza storia. Anonimi, accondiscendono al mare d’estate e contano i giorni d’inverno. Ci sono paesi che sembrano villaggi West, e non solo nei casi più eclatanti come San Salvatore di Sinis, ma anche ad esempio nelle forme di alcune chiese di Macomer o Dolianova. Ce ne sono altri custodi di storia, sempre duri al primo impatto, nascosti dai massi delle zone più lontane dalla costa. (http://www.sardegnaabbandonata.it/tandalo/)

C’è la scansione della Sardegna industriale, che si può leggere anche nei nomi dei paesi, da Argentiera a Carbonia. Il parco geominerario storico (http://www.parcogeominerario.eu/) occupa circa un sesto dell’area dell’intera regione ed è segno di qualcosa che è stato e non è più. Qualcosa che oggi lascia il posto alle zone più povere della regione. Tracce che rimangono nel territorio, come l’enorme cementificio abbandonato a Scala di Giocca, alle porte di Sassari (http://www.sardegnaabbandonata.it/cementificio-di-scala-di-giocca/). Una scansione che rileva però anche i poli industriali ancora in attività, quelli che danno lavoro a migliaia di persone e ne uccidono lentamente le famiglie con l’inquinamento: Porto Torres, Portoscuso, Sarroch.

C’è la scansione della presenza militare nell’isola. Nell’arcipelago della Maddalena, a Macomer, a Capo Teulada, a Capo Frasca, nel Salto di Quirra. Presenza non solo italiana come testimonia una base militare dell’aeronautica americana abbandonata, sulla cima del monte Limbara. Presenza che si concentra non solo nelle grandi basi ma anche in tanti piccoli centri, nell’hinterland cagliaritano: Monastir, Decimomannu, Uta, Quartucciu, Elmas. (http://insecondopiano.altervista.org/index/2009/11/occupazione-militare-in-sardegna/)

La scansione dei luoghi di reclusione. Il carcere dismesso dell’Asinara. I penitenziari, che prima venivano costruiti all’interno delle città, come il Buoncammino a Cagliari e il San Sebastiano a Sassari, entrambi al centro di progetti di riconversione d’uso (http://lanuovasardegna.gelocal.it/regione/2013/09/28/news/nel-vecchio-carcere-la-storia-di-sassari-1.7825136). Ci sono varie strutture che oggi si preferisce tenere lontane dai centri abitati, cosa facile in un territorio come quello sardo. Ci sono i manicomi abbandonati, sostituiti dagli OPG, che presto ci abitueremo a chiamare REMS (http://www.manifestosardo.org/manicomio-sardegna/), oppure dai reparti di psichiatria delle aziende ospedaliere. C’era, fino a pochi mesi fa, il CSPA-CARA di Elmas, che non si chiamava CIE, così come i CIE non si chiamano più CPT, ma che ospitava comunque circa 300 rifugiati in un luogo che aveva tutte le sembianze di una prigione, inglobata in un ex aeroporto militare. (http://www.meltingpot.org/Cpa-di-Elmas-La-denuncia-delle-associazioni-il-centro-e-una.html#.VoKeVLu3D5L)

C’è anche una scansione dei cibi proibiti. Il casu martzu. Il filu ‘e ferru. Anche da questi si può avere un’idea del rapporto complicato della Sardegna e delle sue tradizioni con le leggi italiane o europee.

C’è l’usanza di scrivere e disegnare sui muri. Di lasciare tracce. Di lottare e poi lasciare tracce. Di proseguire una tradizione. Di dire qualcosa a tutti.

FOTO

/// parte 1

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Tuaredda (CA)

Tuaredda (CA)

Carloforte (CI)

Carloforte (CI)

Is Arenas (OR)

Is Arenas (OR)

Su Murrone (SS)

Su Murrone (SS)

Lido del sole (OT)

Lido del sole (OT)

/// parte 2

Lido del Sole (OT)

Lido del Sole (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

Fondorgianus (OR)

Fordorgianus (OR)

Fondorgianus (OR)

Fordorgianus (OR)

San Salvatore di Sinis (OR)

San Salvatore di Sinis (OR)

Narcao (CI)

Narcao (CI)

/// parte 3

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Graffiti, writing, street art, muralismo e urban art: un tentativo di chiarificazione

Quello che segue è un’ estratto del mio reportage Sardegna 2015 di prossima pubblicazione. Gli avvenimenti di questi giorni hanno reso necessaria la sua anticipazione.

 

Raccogliendo i suggerimenti dello street artist C215 (http://legrandj.eu/article/graffiti_street_art_muralismo_e_se_smettessimo_di_fare_confusione) si può fare una distinzione tra graffitismo, writing, street art, muralismo e urban art. I graffiti sono sempre esistiti e, mutuando il nome dall’arte rupestre, per graffito si intende un segno lasciato su un muro. Per identificare il writing si usa spesso, genericamente, la parola graffito. Il writing è una forma culturale ben codificata e circoscritta, databile a contestualizzabile (Stati Uniti, anni ’70, Hip-hop…). La street art rappresenta uno sviluppo soltanto di uno dei tratti caratterizzanti il writing, ovvero l’esprimersi in maniera illegale su un muro. Per contro, anziché creare un linguaggio codificato, la street art moltiplica i propri significanti attraverso gli artisti che la interpretano e si pone piuttosto come metodo. Essendo questa diventata un fenomeno di costume diffuso e ricercato, in grado anche di muovere interessi e soldi, si assiste a quello che C215 definisce “muralismo”: ovvero la pratica della street art in maniera legale, su supporti autorizzati, nell’ambito di un’iniziativa pubblica.

Mi sento di dover fare un chiarimento riguardo al termine muralismo. Lo trovo appropriato nel momento in cui definisce una pratica artistica che si svolge in luogo pubblico, condivisa e accettata dalla comunità che la concepisce. Trovo però riduttivo ricondurre questa forma di espressione ad un’evoluzione della street art, tralasciando l’esperienza del muralismo sudamericano dei primi del ‘900, di matrice politica. Nell’accezione data da C215 per descrivere alcune derive commerciali della street art trovo più corretto parlare di urban art, come recentemente ricordato da Ex-voto in un intervento sulla sua pagina (https://www.facebook.com/ex.voto.58/posts/1706872599582814).

Bologna, Blu, i suoi fan e i magnati.

blu xm

(La lettura di questo aiuta a comprendere il mio punto di vista e l’articolo che segue)

Veramente difficile dire qualcosa di sensato e lucido riguardo l’intera faccenda, prima degli stacchi di pezzi di street-art dai muri di Bologna, poi della cancellazione, con una passata di grigio, da parte dello stesso Blu, delle proprie opere.

Forse la cosa più sensata sarebbe partire da quando sono arrivato a Bologna, anni fa, e per la prima volta ho visto un pezzo di Blu. Era il secondo giorno che stavo in città e sono stato invitato da alcuni amici a raggiungerli in un centro sociale, XM24, in cui non ero mai stato. Quando stavo per arrivare, da lontano, ho visto il muro di questo capannone ricoperto di murales diversi da tutti quelli che avevo visto fino ad allora. La schematizzazione dell’evoluzione umana, della scimmia che diventa uomo per poi regredire davanti la TV, non la scorderò mai. Mi ha accompagnato da allora. Così come gli umanoidi, mezzi uomo mezzi ibridi tecnologici (che però dalla tecnologia sembravano più soggiagati che amplificati) che vedevo davanti al supermercato in cui facevo la spesa, o vicino la sede della mia facoltà. I primissimi pezzi, quelli, rarissimi, in cui, prima di passare alla pittura Blu usava ancora gli spray, vicino la rotonda di San Donato o in una serranda di via Del Borgo. Man mano ho cominciato a far caso alle opere di questo artista così insolito che oltre a creare cose belle da vedere aveva sempre qualcosa di profondo da dire.

E’ stato bello e importante vederlo crescere e sentirlo vicino, prendere parte alle cose cui partecipavo. Dipingere le facciate dei nuovi spazi liberati a Bologna, dipingere durante la street-rave-parade lungo via Stalingrado, dipingere le serrande di posti come la libreria Modo Infoshop. E’ stato doloroso vedere le suo opere cancellate, dopo lo sgombero di posti come il Livello57, a causa di un amministrazione comunale che ha messo molto più tempo di tanti cittadini a capire cosa stava succedendo sui suoi muri. E’ stato bello ritrovarlo in viaggio, a Berlino, non solo nei tre grandi murales di Kreuzberg (due dei quali hanno subito la stessa fine dei suoi lavori bolognesi), ma anche proiettato fuori dai muri del Tacheles. Si è rapportato a tutti i livelli con il mondo dell’arte ufficiale (dalla biennale del muro dipinto di Dozza, fino alla Tate Modern di Londra, ma non ha mai perso di vista le motivazioni alla base del suo lavoro. E anni dopo queste esperienze me lo sono ritrovato accanto, durante un corteo No-Muos, a Niscemi, Sicilia. Dove ha dipinto dei murales anti-militaristi. Ha girato il mondo (si pensi alle sue opere in sud-america) ed ora è tornato a Bologna.

Questa lunga introduzione serve a far capire un punto importante della vicenda: Bologna senza le opere di Blu è una città ferita. La vicenda del murales Occupy Mordor, sui muri di XM24, lo testimonia. (Chi dice che ora che il murales non c’è più a rimetterci è XM24 che rischia di nuovo non ha ben capito come stanno le cose. La differenza non la fa un disegno sul muro, ma il gesto e l’impegno collettivo che portano alla sua realizzazione)

Ripartiamo dunque: qualche settimana fa leggo un’intervista ad un curatore che starebbe organizzando a Bologna una mostra dedicata alla street-art, staccando le opere dai muri per metterle dentro un museo. Nell’articolo in questione la tesi del curatore è più o meno questa: da sempre ci si impossessa di oepre d’arte e le si pone in mostra, anzi così facendo le si conserva, anzi io sono yeah perchè ho preso anche quelle illegali, se avessi optato per un’intervento di restauro in loco (che nessuno ha chiesto…) avrei potuto operare solo su quelle realizzate legalmente, a me quello che importa è creare una discussione (che anche questa nessuno ha chiesto e ad ogni modo gli stacchi delle opere erano cominciati già da tempo) e se qualcuno degli artisti farà appello al diritto d’autore vuol dire che usa gli obsoleti mezzi del capitale. Non perderò tempo su questa intervista.

Sarebbe invece il caso di perdere un minuto sul finanziatore (di fatto) della mostra, Fabio Roversi Monaco, il quale è a capo di Genus Bononiae, polo museale cittadino, finanziato dalla Cassa di Risparmio di Bologna. Con l’aiuto di una serie di imprenditori, tutti fulminati dalla streetart sulla via di Damasco e tutti, guarda caso proprio ora, preoccupatissimi di salvare le opere dal deterioramento e dalla distruzione, Roversi Monaco dice di essere andato, in pellegrinaggio evidemente, in giro per fabbriche e capannoni abbandonati a vedere coi propri occhi opere destinate all’oblio e di aver deciso di salvarle. Consigliato, si intende, dai curatori di cui sopra. Fa sorridere che un massone, accentratore di cariche, amico dei palazzinari, presidente di Banche e fondazioni, che mi immagino gettare odio quando un’opera d’arte salva dalla speculazione un centro sociale (come ha già fatto Blu) all’improvviso si interessi alla streetart, proprio quando questa sia all’apice dell’appeal consumistico, della patinatura capitalistica, slegata, nella gran parte dei casi, da qualsiasi contesto urbano e muova molti soldini.

Fatto sta che sulla porcata di Bologna, al di là delle polemiche di infimo grado che hanno trovato posto sui giornali, molti degli artisti coinvolti hanno preso posizione per tempo.

Ericailcane, ad esempio lo ha fatto così.

Nemo’s, invece, così, criticando in certo senso il concetto stesso di street art, per come viene genericamente indicata, come un qualcosa simile ad uno dei bisogni che il capitale crea negli individui perchè possa lucrare sulla sua soddisfazione.

Soviet e Never2501 così, parlando di un processo di sottrazione e saccheggio.

Mentre Dem ha cancellato alcune delle proprie opere, assieme a Blu, come ad esempio quelle sulla facciata della prima occupazione di Bartleby.

Pochi giorni fa inoltre, è utili ricordare ai fini della contestualizzazione, l’Artista AliCè è stata condannata al pagamento di una penale, a causa di uno dei suoi murales in città.

Insomma per venire ai fatti tra stanotte e la giornata di oggi Blu ha cancellato tutte – o quasi- le sue opere presenti in città. E qui va sottolineato il secondo punto importante: una scelta così, da parte di Blu, non può che essere una scelta tremendamente dolorosa.

Il comunicato ufficiale è stato affidato al blog di Wu Ming ed è, a mio avviso, l’unico documento che abbia senso leggere al momento. Quindi, per continuare la lettura di questo articolo, è necessario che lo leggiate, ora.

Il gesto di Blu ha scatenato isterismi e sproloqui sia in rete che in città ma ha fatto anche venire a galla contraddizioni interessanti all’interno degli stessi ammiratori dell’artista e dato una nuova prospettiva al fenomeno street art.

Alcune considerazioni riguardo i detrattori di Blu:

-Non tutti sono daccordo con quanto fatto da Blu. Lo accusano ad esempio di aver agito egoisticamente. Eppure è evidente che intrinsecamente le opere di Blu siano di e per tutti, e che qualcuno voglia in qualche modo privatizzare quelle esperienze, la cosa più naturale è che esse spariscano. Se si ama Blu, non si può non capire questa dolorosa scelta. La sua arte è un’arte collettiva, non può esistere senza un contesto e una comunità che la significhi. Inoltre Blu non ha agito da solo: gli abitanti del quartiere, i ragazzi XM24 e Crash, la banda Roncati, lo hanno aiutato. La “sua” comunità lo ha appoggiato, perchè ha capito che stava facendo qualcosa “per” e “con” Bologna e non “contro” Bologna. Ovvero stava mostrando a tutti cosa diventerà Bologna se si avvallerà la visione “privatistica” di chi ha organizzato tale mostra: una città grigia.

-Alcuni dicono <<Ora che ha cancellato le sue opere su quei muri appariranno orribili tag>>. Eppure questo (come messo in evidenza ad esempio da @zeropregi) è un altro dei nodi del discorso. Fino a quando allargheremo le fila dei consumatori di street art patinata, disposti a spendere per comprarla, ignoranti al punto giusto delle origini del writing, sarà tanto più leggittimato chi vorrà relegare l’arte di strada in un museo, facendo distinguo insensati. A questo punto deve essere chiaro che non si può stare con Blu ed essere contro l’arte di strada, tutta. (E comunque sì: le cose sono legate! Streetart – writing – muralismo  e arte urbana hanno radici culturalmente diverse ma fare distinguo di valore in base ai quali assegnare o meno una presunta leggittimità ad esistere è una roba da imbecilli).

-Ancora su questo discorso: Cosa è degrado? i writer che fanno scritte e scarabocchi sui muri? Ma anche Blu, prima di diventare uno dei 10 streetartist più quotati del mondo (secondo il Guardian) ha cominciato facendo scarabocchi sui muri. Dunque la questione è controversa… La parete grigia, se vuoi, è una pagina bianca da cui ricominciare. Gli scarabocchi, se vuoi sono prove di giovani artisti. Il potere vede il “degrado” dove ha interesse ad arrivare con la speculazione e vede “arte” dove le opere sul muro hanno valore sul mercato!

-E ancora: come interpretare dunque, da parte del potere cittadino, le numerose iniziative antidegrado volte a ripulire le città da forme stilistiche verso cui non si dimostra neanche l’intenzione di un approfondimento; e volte alla criminalizzazione di giovani writer? E che dire dei militanti di Crash, denunciati perchè sorpresi a cancellare i murales di Blu?

-Alcuni temono che la cancellazione delle opere rappresenti una resa davanti all’avanzata di un altro degrado, questo si spaventoso e reale: quello della speculazione edilizia. Ma questa visione equivarrebbe alla feticizzazione delle opere di Blu, che sono, è vero, un simbolo di lotta alla gentrificazione, ma che non possono nè devono però sostituire l’unico antidoto all’avanzata del cemento: una comunità cosciente in lotta!

-Alcuni vedono nelle opere scomparse il pericolo di un processo di “degradazione” del territorio. Le opere lo abbellivano. E ora?… Ma anche qui sarebbe il caso di ricordare che le opere di Blu non servono ad abbellire un paesaggio, ma a testimoniare processi in atto e comunità che abitano dei luoghi. Il degrado, non solo a Bologna, è una delle scuse preferite dallo stato e dagli sciacalli amici di Roversi Monaco per reprimere i movimenti e privatizzare. Blu non può essere portato ad esempio di “lotta al degrado” in quanto nella maggior parte dei casi quello che le autorità chiamano degrado è creatività e aggregazione gratuita.

-Ad alcuni semplicemente dispiace per le opere. Si, Anche a me. Mi sento come se un lungo pezzo della mia vita, un terzo della mia vita, fosse stato cancellato. Mi sento ferito. Ma come dicevo sopra le opere in questione sono l’esito di un impegno collettivo. Sebbene le realizzi Blu, esse appartengono sempre ad una comunità (vedi i suoi lavori in Val di Susa). Se oggi Bologna è questo, tanto vale prenderne atto e ricominciare, da un muro grigio.

-Ad alcuni sembra che Blu abbia fatto qualcosa contro di loro e contro la loro città. E questa è l’accusa più incredibile, quella che fa apparire le contraddizioni maggiori. Basta pensare al caso di Berlino. Lì è stato chiaro a tutti che Blu ha cancellato i suoi murales, in accordo con la comunità punk che viveva nella zona, per loro, per appoggiare la loro battaglia contro la gentrificazione. Qui deve essere altrettanto chiaro che Blu si sta schierando dalla nostra parte: dalla parte di quelli che vogliono l’arte libera, gli spazi pubblici, le esperienze collettive. Sta facendo una cosa per noi e con noi. Se a qualcuno questo non torna, quel qualcuno non sta dalla stessa parte dell’artista, evidentemente.

-Riguardo questo fatto mi preme dire che trovo inaccettabile l’idea che i lavori di Blu possano avere una mera funzione consolatoria. Si, le cose vanno male, il capitalismo avanza, ma almeno quando vado a XM24 mi guardo Blu, che fico. Non capire il dolore e la ragione che sta nell’essere orgogliosi del proprio muro grigio è assai singolare per chiunque appoggi le idee e le pratiche messe in campo in spazi sociali come, appunto, XM24. Le opere di Blu sono mezzi e azioni che fanno parte di un discorso/azione anticapitalista in atto. Quando si dice di ammirare le sue opere bisogna prenderne atto.

-Per alcuni Blu, avendo in passato esposto in gallerie d’arte, non avrebbe il diritto di opporvisi, ora. Come se la sua fosse una protesta guidata da narcisismo o da motivi privati. Come se di mestiere non facesse, comunque l’artista. A tal proposito vale anche la pena ricordare gli episodi di censura alle sue opere. A Roma (nell’ambito del SanBa) e a Los Angeles (sulle pareti del MOCA).

E ancora:

-C’è chi dice (i curatori, soprattutto) che la mostra in questione offre la possibilità di un restauro e una conservazione delle opere quando, a mio avviso, parlare di “conservazione” e “restauro” riguardo l’arte di strada dovrebbe di per sè squalificare una persona dal ruolo di curatore artistico… (L’arte di strada non ha senso fuori contesto ed è effimera. Blu lo ha specificato per bene, col suo gesto)

-C’è chi dice che ha solo accresciuto l’interesse e l’attenzione nei confronti della mostra in questiona. Bene. Cerchiamo di usare l’attenzione e l’interesse in questione per dire una cosa semplice: La responsabilità di quanto accaduto è di Genus Bononiae, nella persona di Roversi Monaco e degli accondiscendenti curatori, e dei loro amici finanziatori! Quello che Blu ci sta mostrando è esattamente la città che traspare dalla loro visione privatistica dell’arte (e in genere).

-Inoltre, cosa avrebbe dovuto fare? Creare un’opera di denuncia, col rischia che venisse fagocitata dallo stesso sistema che voleva criticare? Il suo gesto, in un certo senso, è proprio esso stesso una performance artistica “per sottrazione”: ha cambiato il volto alla città e ha emozionato e fatto piangere molte persone!

Tanti altri sono i temi toccati dagli avvenimenti bolognesi:

– Cosa è veramente la streetart? Esiste in quanto tale, si riferisce ad uno stile, o è piuttosto una categoria fluida usata per mercificare e lucrare?

– Come affrontare in definitiva il problema della mercificazione delle controculture che, dal punk in giù, sono sempre state messe a profitto del capitale?

– Come affrontare la questione riguardante i Centri sociali e in generale gli spazi di socialità, sempre più a rischio e ridotti all’osso non solo a Bologna ma vere fucine delle novità espressive che nascono sul territorio.

In che ottica è giusto guardare le polarità pubblico/privato e personale/collettivo in una questione del genere? Le opere possono essere privatizzate in nome di un bene superiore, ma se l’autore le cancella si dice che sta agendo come se fossero sue, private. Le opere si vorrebbero pubbliche, di tutti, se l’autore le cancella, per mettere a fuoco il pericolo di una privatizzzione ci si dispera perchè sono opere pubbliche. Starebbe quindi lui sottraendo opere pubbliche a tutti? Se non lo facesse ne avvallerebbe però la privatizzazione. L’autore ha agito non da solo, ma con una comunità: dunque ha agito “con” e “per” la città. Pur sottrendogli delle opere. Mentre gli organizzatori, pur avendo agito in team, hanno deciso tutto da soli forti del potere datogli dalle possibilità economiche: loro si hanno agito personalmente, deliberatamente in maniera individuale sulla base di una autoassegnazione di competenza, sottraendo delle opere dal loro contesto.

Mi pare che Blu abbia fatto un bel po’ di cose belle con questo suo gesto:

-Intanto ha fatto rimanere di merda Fabio Roversi Monaco e i suoi amici curatori, che fino a ieri si crogiolavano nelle interviste parlando di Blu e dicendo che non aveva espresso alcun parere sulla mostra. Beh, diciamo che ora qualcosa ha detto…

-Ha realizzato, nel bene o nel male, una straordinaria performance artistica. Perchè arte non può essere solo qualcosa di materiale o estetico. Con questo gesto Blu ha cambiato il paesaggio urbano, ci ha emozionato (tristezza e gioia allo stesso tempo), ci ha fatto sperare e disperare, ha mandato un messaggio chiaro e ci ha dolorosamente messo nella condizione di rinunciare a qualcosa di bello, che forse davamo per scontato. “Se non è arte questa” (cit.).

-Ha messo in chiaro che i suoi sono “atti di cittadinanza” contro la gentrificazione, prima che opere d’arte. Ed ha in qualche modo rilanciato la domanda «Chi comanda in città? Chi decide?» centrale in numerose campagne politiche “dal basso” cittadine. Non solo: le sue opere non sono solo opere, ma agiscono e trasformano il territorio che le ospita e ispira. Accettare una loro decontestualizzazione equivarrebbe tout-court ad accettare una loro negazione. Mentre tenere in vita quelle opere è possibile, qualche modo, solo non rinunciando al proprio “diritto alla città”.

-Ha in qualche modo sottolineato l’importanza delle sue opere per la città. (ahinoi…)

-Ci ha scomodato. Ed a volte è necessario che sia così. Dalla confortante e quotidiana visione delle sue opere.

-Ha accettato di battersi rinunciando al diritto d’autore, il quale gli avrebbe consentito di evitare facilemente che le sue opere venissero esposte!!! Ma, per coerenza, criticando egli stesso il diritto d’autore in quanto mezzo che ostacola la libera circolazione del sapere, Blu non ha voluto appellarvisi. Questo anche la dice lunga sul personaggio…

-Ha inoltre messo l’accento sulle situazioni reali di fermento alla base di esperienze come la sua. La maggior parte dei suoi lavori si trovavano sui muri di spazi sociali autogestiti, gli stessi che questa città sta progressivamente eliminando, mentre si erge a salvatrice della street art. (Di Occupy Mordor è sopravvissuto solo un pezzettino di Atlantide).

Ma in definitiva ha soprattutto:

-Incollato gli organizzatori alle proprie responsabilità: volete una città in cui questo tipo di arte sia fruibile a pagamento? Bene, eccovi accontentati. Eccola. L’avete chiesta voi.

-Una volta per tutte ha detto: o sono per tutti o non sono per nessuno.

Altri dubbi, in attesa di una rielaborazione del testo:

– Quali sono i mezzi in possesso di uno street artis per far si che la sua arte non sia manipolata? (Esempio di Banksy). Ad esempio notare che un modo per essere liberi è fare (come mi ha detto si twitter @Arteria_antifa) “qualcosa che non è imposto” e, in definitiva, qualcosa di transitorio.

-Quali strategie possono mettere in campo gli streetartist per evitare che la loro opera favorisca i processi di gentrificazione? (Esempio di Spuistraat ad Amsterdam, dove l’intervento repressivo a posto fine ad una esperienza annuale di occupazioni salvando solo gli edifici resi “prestigiosi” da determinati interventi di street art. La qualcosa genera una frattura all’interno del movimento stesso, se ve n’è uno. E questa composizione – quella degli “streetartist” è proprio uno degli elementi di discussione).

-Quali strategie mettere in campo a Bologna? Dipingere tutto di grigio, proporre agli artisti di utilizzare solo muri pubblici, organizzare eventi di disegno pubblico collettivi o portare avanti altre forme di lotta? Si potrebbe provare a mettere il dito nella piaga dell’arte cosidetta “ufficiale” che, come fa notare qualcuno nei forum, attraversa momenti di empasse, anche a causa dei quali guarda al mondo streetart.

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Riflessione a parte:

Le opere di Blu prima che oggetti sono testimonianza di una comunità e opera di una collettività radicata su un territorio. Di conseguenza al cambiare di determinati fattori socio/territoriali esse mutano o scompaiono. Un pezzo di muro asportato dal suo territorio non può essere un’opera di Blu, checchè ne dica qualche prezzolato critico. Viceversa, la cancellazione collettiva delle sue opere – per mano della comunità stessa che quelle opere aveva visto nascere e sostenuto – è un’opera di Blu.

 

 

 

Riassunto di 8 anni di NoExpo per chi l’ha conosciuto il Primo Maggio

Voglio fare un breve compendio di quello che è ed è stato il movimento NoExpo, dal 2007 ad oggi.

Questo pur consapevole dei rischi di superficialità e dimenticanze insite nell’operazione. Lo faccio perchè mi rendo conto che il numero di persone venute a conoscenza del movimento solo con le vetrine rotte e le auto in fiamme è insospettabilemente enorme; il numero di persone convinte che chi ha praticato la violenza rappresenti tout-court il movimento NoExpo ugualmente impressionante. Il potere dei mass-media mainstream cui siamo sottoposti, indissolubilmente legato ai vertici economico-politici, funziona perfettamente: quello che decide di mostrare viene creduto reale, d’altra parte nessuna spiegazione è richiesta dall’opinione pubblica. L’evento mediatico “devastazione” (termine usato dalla stampa, in cui è già implicita la sentenza) è il meccanismo che ha funzionato meglio.

A partire dalla visione del progetto iniziale di Expo si formano dei comitati, inizialmente locali, poi allargatesi a realtà ecologiste. Un esempio è il comitato NoCanal. Il progetto iniziale di Expo infatti prevedeva la realizzazione di una “via d’acqua” che sarebbe servita ad approvvigionare l’area espositiva, incentrata sull’agricoltura. Tale canale avrebbe addirittura dovuto essere navigabile, per lo scambio merci, il tutto a spese di tre parchi pubblici cittadini, tra cui il parco di Trenno, che avrebbero dovuto essere cementificati per consentire la costruzione del canale. Tra i meriti della mobilitazione NoExpo, quello di aver salvato quasi per intero queste aree verdi, riuscendo a far ridimensionare il progetto, vittoria segnata ben prima del 1 Maggio 2015.

Sempre per costruire la famigerata via d’acqua il comune di Milano e la regione Lombardia hanno provveduto ad espropri di terreni agricoli, allargando il consenso del movimento ad una fetta di lavoratori della terra che, magari, praticavano veramente agricoltura biologica.

Il tema dell’agricoltura ha anche portato il movimento ad interrogarsi sulla bontà degli slogan di Expo (“nutrire il pianeta”) quando sono stati resi noti gli sponsor dei vari padiglioni: McDonald’s (che per l’occasione ha rivisitato la sua veste comunicativa in chiave “green”), Coca-Cola, Nestlè, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es ecc… La spudarata ipocrisia di chi organizza una fiera mondiale sul delicato tema del cibo e della fame e lo fa con l’aiuto di chi disbosca l’Amazzonia, ruba acqua e petrolio all’Africa e sfrutta manodopera a basso costo in Asia ha portato ad avvicinarsi al movimento gran parte della galassia No-Global, presente sul territorio ed attiva per lo più (ma non solo) nei centri sociali.

E sempre a proposito di sponsor la questione della presenza di Eataly, guidata da uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Renzi, a cui sono stati affidati, senza bando, i due padiglioni principali, col gravoso compito di rappresentare l’Italia, ha contribuito al formarsi di ulteriori alleanze tra i NoExpo e quegli altri collettivi impegnati a decostruire la retorica del marketing farinettiano.

Quando Expo ha aperto i bandi per reclutare i lavoratori necessari durante i 6 mesi dell’evento, il movimento NoExpo si è allargato alle realtà del mondo sindacale, dato che per la maggior parte delle posizioni lavorative non era prevista retribuzione. Questione, quella del volontariato, a cui, nonostante le diverse promesse fatte da Expo riguardo la creazione di circa 70000 posti di lavoro (non mantenute), non si è riusciti a porre rimedio.

Nei contratti retribuiti stipulati, arrivati in prossimità dell’inaugurazione, vi è stabilito che il lavoratore  rinuncerà per la durata dell’evento al diritto di sciopero e che si renderà disponibile per lavorare in qualunque giorno della settimana. I più attenti attivisti nel campo dei diritti dei lavoratori hanno visto in questo una sorta di sperimentazione di nuove forme di sfruttamento da applicare, in futuro, a tutto il mondo del lavoro. E’ per questo che, anche grazie alla subdola scelta di inaugurare Expo il 1 Maggio, c’è stato un naturale confluimento dei movimenti che organizzano la MayDay parade nella mobilitazione NoExpo. La MayDay parade è, da almeno 15 anni, un appuntamento fisso a Milano e parte del più generale appuntamento europeo del 1 Maggio. Ogni anno porta in piazza le realtà del mondo antagonista nel campo sindacale e ha visto nascere realtà come San Precario, che hanno contribuito a creare massa critica e attiva attorno alle riforme del mondo del lavoro, a partire dalla legge 30/2003 in poi.

Nel frattempo venivano aperti i cantieri (i lavori sono per lo più ancora in corso) per la realizzazione delle 15 grandi opere, prevalentemente strade, connesse ad Expo. L’ironica combinazione che ha voluto queste infrastrutture costruite tramite cementificazione di terreni agricoli e la constatazione che a vincere i bandi siano state le stesse aziende edili impiegate nei lavori relativi ad altri ecomostri, ha rinsaldato la comunione tra NoExpo e altri movimenti di opposizione alle grandi opere, NoTav in primis.

Le questione degli esorbitanti costi di realizzazione dell’opera, ottenuti contraendo un debito con le solite banche private ha probabilmente avvicinato ai NoExpo quanti si battono per un uso della spesa pubblica utile al sociale: il movimento per il diritto all’abitare, giusto per citarne uno, in questi anni in rapida ascesa a causa delle decine di sgomberi che ogni giorno lasciano famiglie insolventi senza dimora.

Nel frattempo la magistratura incominciava ad indagare riguardo la corruzione negli appalti, scoprendo segreti di pulcinella e contribuendo ad allargare il consenso popolare attorno al movimento, almeno in quella fetta di popolazione ancora moderatamente dotata di spirito critico e non totalmente succube della narrazione mediatica dominante.

Poi c’è stato il 1 Maggio di Milano. Ogni forma di lotta ha il suo apice. A questa data il movimento NoExpo è arrivato così, dopo 8 anni di battaglie e anche di vittorie. Pure nella sinteticità e fretta (ho  ricostruito a memoria e non necessariamente in ordine cronologico) spero di aver reso un’idea della complessità della mobilitazione e della sua formazione.

Io credo che di questo dovremmo parlare. Di questo e delle prospettive future della lotta.

Riguardo gli scontri non voglio esprimere giudizio, anche perchè non c’ero e non tutto mi è chiaro. Per chi ha voglia di giocare al gioco del manifestante buono e di quello cattivo suggerisco la seguente raccolta di comunicati/articoli di movimento (in aggiornamento):

Dopo il corteo del 1 Maggio, riflettiamo per non cadere nella dicotomia tra “buoni o cattivi”.

Primo Maggio, su, coraggio – Una raccolta di contributi per il dibattito sulla #NoExpoMayDay2015

https://www.tumblr.com/danslarue1312/118069428379/lexpo-e-linternazionale-senza-nome-il-carattere

Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/02/corteo-no-expo-troppa-visceralita-nelle-reazioni-ai-black-bloc-di-milano/1645822/

http://www.informa-azione.info/milano_1%C2%B0_maggio_no_expo_sempre_complici_e_solidali_comunicato_della_rete_evasioni

http://ilmanifesto.info/storia/cento-colpi-di-spugna-tra-roma-e-milano/

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Il mio pensiero è per Klodian Elezi, ragazzo albanese di 21 anni, morto mentre lavorava senza dispositivi di sicurezza in un cantiere correlato ad Expo, nella fretta di terminare in tempo i lavori.