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Che fai l’11? Del perchè dovremmo vederci lo stesso.

L’11 luglio a Torino avrebbe dovuto esserci un vertice europeo riguardante la disoccupazione giovanile, a cui avrebbero dovuto partecipare rappresentanti del parlamento italiano ed europeo. L’occasione era data dall’inizio del semestre italiano di presidenza del consiglio della comunità europea, cominciato il 1 giugno. La data dell’undici luglio avrebbe quindi giustificato una presentazione dei progetti che il nostro governo avrebbe intenzione di mettere in campo in questo periodo di guida dell’istituzione europea per combattere uno dei problemi fondamentali (probabilemente “il” problema) riguardanti la società capitalistica che il progetto UE ha affermato e formato.

In vista del vertice i movimenti avevano organizzato una giornata di protesta lanciando l’hashtag #civediamol11 per chiamare in quel giorno un corteo nella stessa città ma non solo: per organizzare un percorso articolato in vari momenti di riflessione e di costruzione di alternative che avrebbe avuto un apice nella giornata dell’11 luglio. Un percorso fatto di assemblee, proiezioni, eventi, produzioni e che si sarebbe completato con alcune giornate di campeggio a Torino nei giorni della manifestazione.

Tutto questo pare sia stato vanificato. Il vertice è infatti stato spostato e nebulose sono le motivazioni di tale scelta. Ad ogni modo, quale che ne sia il motivo, appare chiaro che quantomeno una delle ragioni alla base della decisione sia stato il timore per le contestazioni annunciate. Non che intenda timore per lo scontro (chi si sognerebbe di battere sul piano fisico un esercito vero e proprio, quale è ormai diventato il corpo schierato dallo stato per ragioni di ordine pubblico) quanto piuttosto timore per ragioni di immagine legate al presentarsi, all’inizio del proprio semestre di presidenza, con un vertice su un tema così delicato contestato da decine di migliaia di persone. E sappiamo bene quanto all’immagine tenga il nostro nuovo governo.

Riguardo le contestazioni annunciate per l’11 posso testimoniare di una certa spaccatura all’interno dei movimenti riguardo le modalità della protesta. Da quello che ho potuto cogliere, seguendo le cose sul web, una delle critiche principali mosse ai movimenti è stata quella di organizzare una giornata di protesta per rispondere ad un vertice e di giocare quindi, se così si può dire, in replica al calendario dettato dalle scadenze istituzionali e non invece in maniera propositiva. Quello che è stato inotre fatto notare è che si voleva per di più rispondere ad un evento con una funzionalità di pura comunicazione, un vertice vuoto nel corso del quale i politici di turno non avrebbero deciso nulla ma si sarebbero invece solo incontrati ad uso e consumo del sistema mediatico che avrebbe poi creato una narrazione mainstream dell’accaduto.

Posso rispondere a queste due critiche brevemente. In primo luogo trovo che sia assolutamente giusto essere propositivi e creare momenti di lotta con una calendarizzazione nostra, ma credo che si debba comunque rispondere agli eventi di questo tipo calendarizzati dal governo. In secondo luogo credo che il fatto che il vertice sarebbe stato un contenitore vuoto di puro spettacolo non sia un motivo valido per disertarne la contestazione ma che anzi sia necessario, in tali casi, creare una contro-narrazione della realtà dei fatti (anche con la protesta oltre che con la comunicazione) volta a contrastare quella mainstream.

Per questi motivi trovo assolutamente significativo un eventuale spostamento del vertice in questione, come viene ventilato in questi giorni, a novembre nella città di Bruxelles. Lo spostamento del vertice in un campo ancor più inespugnabile dai movimenti italiani e praticamente alla fine del semestre di guida italiana confermerebbe sia il timore delle contestazioni sia l’inutilità effettiva delle decisioni prese in tale sede.

Ad ogni modo non sono d’accordo con la decisione di rinunciare alla data di mobilitazione per molti motivi.

– Perchè credo che il percorso intrapreso in vista della data dell’undici sia un percorso valido e non vorrei correre il rischio di minarlo eliminandone il momento culminante.

– Perchè possiamo, appunto, dettare una nostra calendarizzazione in cui incontrarci e portare all’attenzione dell’opinione pubblica un nostro tema.

– Perchè potremmo approfittarne per far passare il messaggio che il vertice in questione fosse un evento vuoto di pura formalità ed apparenza, mentre invence rinunciando alla mobilitazione facciamo passare il messaggio che fosse un evento in qualche modo di contenuto.

Cosa non c’entra niente coi Mondiali di calcio

Visto che in questi giorni si parla tanto di Mondiali, voglio parlare di qualcosa che non c’entra nulla: di calcio.

In un articolo apparso su Futbologia.org qualche tempo fa ho trovato molti spunti dai quali ho attinto a piene mani per stilare quella che segue che è una specie di lista di rivendicazioni, conscie ma più spesso inconscie, che porrei al mio club d’appartenenza locale, se fossi un Ultrà.

– Che lo stadio non sia un luogo di consumo, ma un luogo di socialità in cui passare la domenica in compagnia. Che sia aperto per molte ore e che vi sia possibile introdurre tutto il materiale pertinente all’appertenenza al club. Che i tifosi possano gestire attività all’interno dello stadio nei giorni di gioco e distribuire materiale. Che si possa, in definitiva, fare dello stadio la piazza della domenica e non un mero luogo in cui “consumare” un match mentre si mangia nel ristorante della società e si compra una maglia nello store ufficiale.

– Che le società investa nei territori in cui è radicata in termini di impianti sportivi in modo da favorire l’aggregazione e la diffusione della pratica sportiva. Avere in città un’azienda delle dimensioni di un club di serie A, ad esempio, e non riceverne i benefici che una struttura di tali dimensioni può portare alla cittadinanza tutta è assurdo. D’altronde le società di calcio tendono a creare impianti sportivi di fascia alta e quindi molto costosi. Dovrebbero, per lo meno, crearne un certo numero di fascia popolare. Inoltre dovrebbero manutenere un certo numero di impianti sportivi già esistenti nella loro città rendendoli accessibili a chiunque.

– Che le società investano nei giovani del loro territorio, magari anche riservando ai ragazzi del vivaio una percentuale di diritto nella rosa della prima squadra. Che si segua l’esempio del Barcellona, in questi anni passati squadra più forte del mondo. Se una squadra locale non serve a far crescere e scoprire ragazzi del posto, non serve a niente.

– Senza entrare nel merito dell’universo Ultrà, che sia almeno lasciata libertà di espressione negli striscioni. Mi basta dire che gli Ultrà sono elementi indispensabili a cui le società stesse non potrebbero rinunciare senza pagare uno scotto importante dal punto di vista economico (soprattutto per quel che riguarda la vendita delle partite alla pay-tv). Tentare di censurare le loro esternazioni (per quanto il contrario possa essere rischioso) è quantomeno ipocrita.

Lettera aperta ad un sindaco neo-eletto

Egr, [...]

Innanzi tutto voglio congratularmi con lei per lo straordinario successo ottenuto alle passate elezioni.
Segno indubbio della bontà del suo operato e della fiducia che molti cittadini ripongono in Lei.

Le scrivo perchè trovo significativa la sua vittoria nella città di [...], storicamente feudo della sinistra, soprattutto se messa in relazione alla sconfitta del partito di governo. Dico questo perchè voglio vedere nella sua vittoria, non tanto la vittoria del cittadino X sul cittadino Y, quanto piuttosto la vittoria di un movimento locale contro il PD. In quest'ottica infatti voglio riconoscere ai nostri concittadini la capacità che hanno avuto di evitare la trappola della vuota retorica del partito e di tutelarsi contro chi si sta distinguendo, in tutta Italia, come un'enorme macchina per l'assegnazione di grandi appalti per opere altamente impattanti quanto inutili e, più in generale, come un sistema verticistico e strettamente gerarchico.

Nel vuoto del sistema partitico italiano trovo di grande valore il suo risultato che è riuscito ad evitare le destre, il suddetto partito e i facili populismi a cinque stelle.

Senza entrare troppo approfonditamente nel merito le elenco in breve quali sono i principali appalti a cui mi riferisco. Naturalmente quando dico che il PD ha interessi in un determinato appalto mi riferisco o a lavori assegnati a costole dello stesso partito (Legacoop, CMC...) oppure a privati notoriamente sponsor o comunque vicini a suddetta area.

 Il partito democratico ha i suoi interessi nella realizzazione della seconda linea ad alta-velocità Torino-Lione (la prima, lo ricordo, è utilizzata solo al 30%).
Ha inoltre interessi nella realizzazione di altri tratti AV tra cui quello Bologna-Firenze.
Recentemente perfino renzi è arrivato ad ammettere le responsabilità del PD nella realizzazione del MOSE di Venezia.
E' implicato negli scandali dovuti all'assegnazione di appalti relativi ad EXPO 2015 Milano.

Anzichè continuare con gli esempi vorrei chiederle di vigilare sulla situazione in paese, poichè quello che viene applicato alla nazione viene riportato anche nel locale. La nostra zona ha una straordinaria vocazione naturalistica e architettonica che va preservata. Le voglio chiedere di esprimere subito un parere forte sulla volontà di bruciare rifiuti CSS nei forni delle cementerie. Le chiedo anche di prendere posizione sulla realizzazione della strada a scorrimento veloce che dovrebbe collegarci allo svincolo della superstrada (quando un altro collegamento veloce già esiste, dall'altro lato del paese...). Ho già avuto modo di scrivere la mia idea su queste due opere qui e non vorrei rubare altro spazio in questa sede.

Mi permetto solo di dirle che queste opere sarebbero oltremodo impattanti per l'ambiente, per l'aria che respiriamo (che già sfora i limiti consentiti del 90% ogni anno) e in generale per la dimensione archittetonica e paesaggistica del paese. Naturalmente la rinuncia ad alcune opere non può essere fatta senza un emancipazione da alcune parole d'ordine, ormai vuotate di significato, che sempre le accompagnano, come ad esempio "progresso"... E a questa riflessione va fatta seguire la consapevolezza di dover costruire e valorizzare un nuovo tipo di approccio al lavoro: la crisi ci ha insegnato che i cementifici seppure creano lavoro, creano del lavoro comunque incerto e che, in definitiva, tutti i lavori lo sono. Quindi vale la pena ripensare dove si vuol spostare l'ago della bilancia nel merito del rapporto con i cementifici della città.

Nell'ottica di un cambiamento tanto radicale di prospettiva, ne approfitto per darle solo un suggerimento valido come sperimentazione, in piccole aree, di processi volti ad aumentare il senso civico e la partecipazione: l'Autogestione. Incentivi l'individuazione di aree esterne o interne da far gestire direttamente ai cittadini, aree in cui si possa curare il verde, coltivare un orto, creare un ambiente per incontrarsi, creare street-art, ecc... E lasci, a chi prende l'incarico, la responsabilità di rispondere del risultato. Personalemente, lo trovo il miglior esercizio civico possibile.

Nel salutarla,
la ringrazio e le faccio i migliori auguri.

Di sindacati confederali e sindacalismo

Una recente disavventura personale al lavoro mi ha portato a contatto diretto con il mondo del sindacalismo italiano nel suo ruolo principe: la tutela del lavoratore.

La vicinanza alla lotta dei facchini della logistica bolognese (Granarolo, ecc…) mi aveva già fatto entrare in contatto con il lato malato del sistema sindacale. La dinamica con la quale molti lavoratori sono stati licenziati senza colpo ferire la dice lunga sulla condizione attuale del mondo del lavoro e sulla difficoltà per un lavoratore di trovare dignità. Il cappello calato sui lavoratori dai sindacati confederati rappresenta un peggioramento, se possibile, della situazione. Molte sono state, nei giorni di lotta dignitosa dei facchini, le denuncie di chi ha ricevuto promesse di mantenimento del posto in cambio di un tesseramento. Fatti portati, in almeno un’occasione, davanti al palazzo della CGIL. Se il recente Jobs Act non potrà far altro che peggiorare la condizione del lavoratore nel rapporto con il datore e nella possibilità di contrattazione, tanto più questo andrà a vantaggio dei sindacati confederali che accresceranno il loro potere.

Un esempio di come questi già da ora agiscano come braccio di partito è dimostrato, ad esempio, dalla lettera, firmata CGIL, ARCI e LIBERA, in cui si prendeveano le distanze dalla mobilitazione dei facchini, accorrendo così in adunata in aiuto a Legacoop, a sua volta inesauribile bacino di voti del Partito sedicente di sinistra.

Ma la mia, pur di per sè insignaficante, esperienza personale, mi ha fatto notare un altra sfaccettatura dello stesso stato di cose. Quello che segue, specifico, è relativo al caso particolare vissuto.

Durante le assemblee sindacali, a cui, nella mia azienda, erano presenti solo i tre sindacati fantoccio, ho notato che il potere di questi si definisce in una sorta di autoreferenzialità. I rappresentanti sindacali decidono le strategie e le modalità. I percorsi di conflittualità possibile e le proposte alterantive non hanno molte speranze di emergere. Ad ogni modo ogni azione viene incanalata in un percorso volto a portare all’attenzione del datore di lavoro, o comunque della controparte, la potenza del sindacato stesso e la sua organizzazione. Nessuna differenza di intenti traspare mai tra i tre diversi rappresentati dei tre sindacati. In ogni caso, la tendenza al cercare il meno possibile lo scontro e all’attesa prevale. Quando si delineano le unità lavorative che verranno eliminate vengono definite come merce di scambio nella contrattazione.

Questo delinea il sindacato come ente che lavora essenzialmente per sè stesso e per accrescere il suo potere in termimi di negoziazione con grandi realtà, ma quindi, sostanzialmente, di rappresentanza di un potere politico, sempre più a queste legato (vedi il caso PD-Legacoop-CGIL). Paradossalmente infatti, più il sindacato non rappresenta che sè stesso, più esso rappresenta qualcun’altro di più potente, un partito, ad esempio, o una grande corporazione.

Come se il disordine non fosse abbastanza: la mia su #jennyacarogna

Come se in questi giorni non se ne fosse parlato abbastanza, voglio esprimere brevemente la mia visione, riguardo a quanto avvenuto nel giorno della finale di coppa italia tra Fiorentina e Napoli.

Premetto che consiglio, per la comprensione di quanto scriverò, ma anche in generale riguardo le questioni legate al mondo ultras, la lettura de Il derby del bambino morto di Valerio Marchi (2005).

Tutta la società civile e benpensante si dice scandalizzata dal fatto che ci sia solamente consultati con gli ultras del Napoli prima di cominciare la partita. Ebbene io credo che questa sia stata una delle poche cose sensate che sono avvenute quel giorno a Roma. E non lo dico in senso macchiavellico. Io credo veramente che sia stato opportuno e giusto.

Innanzi tutto non credo siano stati i tifosi a dare il nulla osta: la decisione con tutta probabilità è stata presa altrove e poi si è andati dagli ultras per comunicare con loro. Inoltre è incontestabile il fatto che questo semplice gesto abbia evitato disordini maggiori.

Ma non è solo questo. Il calcio è dei tifosi e, in quel momento particolare, nel caos di quelle poche ore, è impossibile sapere quale fosse lo stato d’animo di quelli che, in curva sud, venivano a sapere della notizia nei modi più vari. Coinvolgere perciò la curva del Napoli in quei momenti è stato giusto oltre che opportuno.

Sappiamo benissimo che a decidere se giocare o meno la partita sarebbero stati comunque gli sponsor e tutti i portatori di interesse attorno all’evento. Personalmente, non avrei fatto giocare. Ma se, dalla curva della tifoseria che aveva uno dei suoi all’ospedale, fosse veramente arrivato un ok, credo sia stato giusto giocare.

Vorrei chiudere ricordando che tutta la confusione mediatica attorno al personaggio del capo ultrà del Napoli, naturalmente, non è casuale: questa serve a coprire un fatto molto triste di cui evidentemente per media e tuttologi è spinoso trattare. Se è ormai sdoganato parlare di camorristi, tanto più se sotto forma di teppistelli da stadio, risultano invece ancora tabù certi argomenti politici.

Infatti si fa tanta confusione attorno al capo ultrà del Napoli che non ha commesso alcun reato, mentre poco si parla di colui che, qualche ora prima, ha sparato contro alcuni tifosi! Ebbene a premere il grilletto, e non per motivi strettamente legati al tifo, è stato un pregiudicato fascista, riconducibile ad un centro sociale di destra, occupato, all’epoca, col beneplacito dell’amministrazione cittadina.

Qua un link:

http://www.ecn.org/antifa/article/4350/roma–nessuno-che-dice-che-gli-spari-sono-partiti-da-una-occupazione-fascista

Primo Maggio. Ancora su migrazioni e sindacalismo. E sex-workers.

Dopo il Primo Maggio e le relative giornate di lotta portate avanti in varie città, col pensiero in particolar modo alla piazza di Torino e alle tensioni dello spezzone dei movimenti col PD e col suo efficientissimo servizio d’ordine (pubblico + privato), oggi vengo a sapere di un ulteriore passo avanti delle riforme in merito al lavoro, portate avanti dal governo nella direzione della precarizzazione.

Seguitando il parallelismo cominciato con il post precedente vorrei portare un altro esempio riguardante al modo in cui, è una mia teoria, alcune emergenze sociali vengano tranquillamente tollerate perchè abbassano gli standard di riferimento di un’intera categoria professionale. Nel caso specifico vanno a deleggittimare l’ipotesi stessa di categorizzazione professionale.

Mi riferisco alle sex-workers.

Il caso dei centri massaggio cinese, che coprono, neanche troppo, attività legate alla prostituzione, è molto interessante. Questi centri sono fioriti un po’ ovunque nelle città come nei centri minori. Partendo dalle priferie arrivano, nelle realtà più grandi, anche a lambire zone del centro storico, in cui gli affitti sono più alti. Al proprio interno lavorano ragazze sulla cui storia personale poco si sa, ma, bisogna dirlo, poco si vuol sapere, considerata l’attenzione irrisoria dello stato al fenomeno. A Bologna, ad esempio, ricordo il caso di un centro che venne chiuso, qualche anno fa, per un periodo, per poi tornare in attività. Il motivo fu proprio il fatto che l’attività di centro massaggi nascondesse offerta di prestazioni sessuali.

Ora, riguardo le lavoratrici di questi centri, non posso fare a meno che pensare al fatto che esse saranno quasi sicuramente ragazze incappate in questo lavoro perchè emigrate in cerca di fortuna. Inoltre posso immaginare le loro misere paghe e i loro inesistenti diritti sindacali. Le giornate interminabili passate al chiuso di uno studio senza finestre e i rarissimi giorni liberi. Eppure realizzo anche che queste ragazze fanno in qualche parte di un sistema lavorativo. Che non lavorano in strada ma in un locale con altre colleghe. In un ambiente quindi tutelato da aggressioni, ad esempio. Inoltre, la qualifica di massaggiatrice, dovrebbe consentire loro, in qualche modo, di avere riconosciuta una professionalità e di lavorare in regola.

A questo punto risulta stridente il parallelismo con le sex-workers italiane. Quelle tra loro che decidono liberamente di intraprendere la professione di lavoratrice del sesso, potrebbero avvantaggiarsi della libertà professionale propria delle lavoratrici autonome. Invece sono costrette a non vedersi riconosciuta questa possibilità, al doversi nascondere e spesso ad esercitare in strada, in luoghi magari isolati, esposte ai pericoli del caso. Nonostante i vantaggi derivanti burocraticamente dall’essere cittadine italiane esse vivono una situazione inversa rispetto alle loro “colleghe” cinesi. Inversa, nel disagio che accomuna entrambe.

Non vorrei essere frainteso: non sono un perbenista e non mi auguro che i centri massaggio cinesi vengano chiusi. Mi chiedo però se la tolleranza dello stato nei confronti di questi e il mancato riconoscimento professionale alle sex-workers italiane non siano diverse sfumature della stessa volontà di ostacolare la categoria professionale.

Verso il Primo Maggio: su migrazioni e sindacalismo

Siamo di nuovo alle porte del Primo Maggio e colgo l’occasione per fare qualche semplice parallelismo che ho in testa da un po’.

La celebrazione del Primo Maggio dovrebbe ricordare gli eventi del 1886 quando a Chicago la polizia sparò per ben due volte contro un corteo che manifestava per ragioni sindacali. A seguito di tali manifestazioni inoltre, l’anno successivo, 12 tra organizzatori e partecipanti agli scioperi vennero impiccati.

E’ chiaro che tutto ciò verrà tenuto come ogni anno lontano dalle retoriche che accompagnano l’evento a livello istituzionale. Il mondo del lavoro versa in una condizione melmosa e non per caso: la crisi stessa non basta a giustificare lo stato delle cose. La deregolamentazione (o nuova regolamentazione) che ci ha portato (parlo del caso italiano) nella merda in cui ci troviamo oggi, è cominciata molto prima. Tanto per ricordare un unico e significativo evento, la legge 30/2003 ha trovato, dopo la tragica morte di Biagi, pressoché nessuna opposizione. Ha preso anche il nome dal suo autore originale, nonostante sia poi in larga parte completata da altre menti “eccezionali”. L’opposizione ad una legge, che di fatto ha aperto le porte della precarietà in Italia, è stata perciò delegittimata alla radice, in quanto facilmente accostabile al gesto violento che ha posto fine alla vita del suo autore, in un clima di irrazionalità nazionale che mi lascia tutt’oggi perplesso, constatando quali sono le conseguenze (e dove i vantaggi) dell’omicidio.

La schifezza in atto nel mondo del lavoro in Italia trova legittimazione anche in altri processi. Nell’anno passato abbiamo assistito all’incidente della fabbrica di Prato in cui hanno perso la vita 7 lavoratori cinesi. Ebbene, personalmente, non credo affatto sia un caso che situazioni come quella dei lavoratori stranieri in condizioni che esulano ogni norma, passino sempre inosservate. In Italia (ma ovunque in Occidente) viene tollerata (voltandosi dall’altra parte) la presenza di industrie che impiegano lavoratori costretti ad una condizione sindacale/salariale inferiore alla media nazionale, perché la sola presenza di queste realtà rende la classe lavoratrice facilmente ricattabile. Essi stanno difatti lì a ricordare, a quanti hanno voglia di battersi per i propri diritti, che ci sono eserciti interi di lavoratori di ogni parte del mondo che mandano avanti sistemi di produzione a condizioni sindacali inferiori che non aspettano altro che l’occasione per entrare nel sistema produttivo italiano.

D’altra parte la de-localizzazione degli stabilimenti occidentali in zone del mondo con standard sindacali inferiori rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia. Il capitale esporta le sue aziende senza, naturalmente, garantire ai nuovi impiegati le condizioni sindacali dei vecchi.

Credo che i due problemi abbiamo due soluzioni, di difficile realizzazione, entrambe di vocazione internazionalista. Nel caso dei lavoratori stranieri in Italia infatti la sfida dei movimenti di lotta sindacale sta nell’attirare al proprio interno gli stranieri, magari che vivono una situazione di emarginazione, per aprire anche nelle loro coscienze la prospettiva di un miglioramento nel lavoro.

Il caso invece della de-localizzazione degli stabilimenti di produzione rende chiara la necessità di rafforzare le relazioni sindacali internazionali e l’esportazione di modelli sindacali stessi.

Cosa vuol dire avere un cementificio in paese: Inceneritori e superstrade

Nella “verde” Umbria, in una valle circondata dagli Appennini, nel mio paese, si vivono da mesi, in accordo col clima generale che si respira in Italia, tensioni legate alla realizzazione di “grandi opere”. Una di queste è sicuramente la polemica riguardante il progetto di costruzione di una strada a scorrimento veloce, che raddoppierebbe di fatto la strada che attualmente collega il paese con la superstrada. Una seconda riguarda la formazione di un comitato cittadino “No-Inceneritore”, in quanto le cementerie del paese (due) premono per ottenere il via libera all’incenerimento dei rifiuti CSS nei loro forni, reso possibile da un passato ministro, nel 2012.

Mi rendo conto del fatto che parlare di queste due cose contemporaneamente può risultare confusionario. D’altra parte non intendo affrontare nello specifico i problemi delle due opere, aventi ognuna le proprie particolarità. Spero di riuscire ad affrontare in futuro entrambi i casi singolarmente. Per ora mi interessa ragionare sulla spinta irrazionale verso la realizzazione di opere altamente impattanti verso l’ambiente, che sembra non risparmi neanche situazioni di elevata vocazione naturalistica e storica, come quella da cui provengo.

Parliamo di strade.

Credo che  vada de-costruita l’aura di progresso legata alle opere infrastrutturali. Se nessuno può negare che una città con pretese turistiche risulti svantaggiata da una posizione geografica difficilmente raggiungibile, è altrettanto evidente che spesso è proprio la posizione geografica particolare che permette nel tempo a certe caratteristiche naturali o urbanistiche di mantenersi inalterate. Il progresso è un termine vuoto, quello che poteva essere desiderabile solo dieci anni fa, oggi può risultare uno sbaglio. I territori, che per varie ragioni hanno perso il treno della realizzazione di grandi collegamenti nei periodi di cementificazione indiscriminata, potrebbero rivelarsi avvantaggiati. Dipenderà dalla loro capacità di prendere coscienza del tesoro che rappresenta un ambiente incontaminato.

La difficoltà che si può incontrare quindi nel raggiungere un contesto non del tutto urbanizzato è a questo punto indivisibile dall’esperienza di vita in suddetto contesto. Certo per chi in questi posti abita il disagio può essere alto. Ma bisogna domandarsi cosa voglia dire affrontare la questione nella direzione del miglioramento delle comodità ad ogni costo, causando disastri e devastazioni di cui ci si potrà pentire per anni e che non saranno in alcun modo sanabili.

Il cambiamento che si deve produrre è perciò nella mentalità ma anche nella quotidianità delle persone. Questi cambiamenti non sono impossibili: sono frutto di percorsi di formazione a cui le amministrazioni e i politici, se in buona fede, dovrebbero provvedere. Mi riferisco in particolare ad un cambiamento nella prospettiva comune che vede il paese come mera periferica della città.

E parliamo di inceneritori.

In linea di massima il ragionamento è lo stesso. L’inizio di un attività del genere nei forni delle cementerie moltiplicherebbe l’immissione di inquinamento, anidride carbonica, diossine e CMR (sostanze Cancerogene, Mutagene e tossiche per la Riproduzione) in un ambiente in cui, bisogna ricordarlo, il tasso di anidride carbonica immesso dalle industrie viene già sforato del 90% ogni anno. Tutto questo, in un contesto di primo piano dal punto di vista ambientale, è stato tollerato in virtù dell’occupazione che ha generato nel tempo (e del bacino di voti che tale occupazione è andata a garantire). Tale baratto si è però rivelato per la presa in giro che è nel momento in cui, con la crisi, gli stabilimenti non hanno esitato a fare ricorso alla cassa integrazione. Per inciso, sembrerebbe che l’inizio di un’attività di incenerimento rifiuti non comporti un aumento di personale sostanziale.

Anche in questo caso occorre decostruire il mito del progresso che fino a qualche tempo fa vedeva nell’industria e nei collegamenti veloci i suoi cavalli di battaglia. Quest’idea continua ad essere valida solo nella mente di quegl’imprenditori che vogliono arricchirsi con le opere da realizzare e in quella dei politici che da questi ricevono appoggio, ricambiandolo con permessi particolari.

Il progresso, basta avere un po’ di buon senso, ormai non ne può più della retorica del costruire: oggi progresso, è una mia opinione, vuol dire valorizzare e ristrutturare. L’ambiente attorno ai cementifici ha pagato a caro prezzo la presenza dell’industria che ospitava vedendo erodere lati interi di montagna: ma ancora più pesante sarà questa eredità se non si riuscirà a creare una prospettiva diversa per tutti quei lavoratori che lì hanno trovato uno stipendio sicuro ma che, per forza di cose, dovranno presto trovare un’altra fonte di reddito. Guardare al problema del lavoro, nella specificità dei propri territori, con occhi nuovi diventa fondamentale. Valorizzando magari attività locali che risentano meno direttamente delle crisi del capitale generate dal capitale stesso. Anche in questo caso, dunque, è un cambiamento di predisposizione mentale e di prassi quotidiane che è necessario.

Il business degli inceneritori è legato a quello delle strade in quanto entrambi hanno a che fare, nel mio paese, con il cemento. Qualunque cosa accada io so che, se queste opere verranno realizzate, questo sarà a causa di una volontà politica, volta a rendere favori ai signori del cemento.