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Sardegna 2015 / A fora sas bases

Reportage Sardegna 2015 | Di muralismo e streetart. Di spopolamento e accoglienza.

Parte 3

A fora sas bases (slogan antimilitarista sardo)

Sardigna natzione” e “A fora sas bases” sono le due scritte che più spesso si trovano sui muri dell’Isola. Sebbene la spinta antimilitarista non sia prerogativa dei movimenti separtisti, è pure vero che analizzare la presenza militare in Sardegna aiuta a comprendere meglio il punto di vista di quei sardi che vedono la loro terra come una colonia dello stato italiano.

In Gallura, solo nella zona di Palau (OT) si contano circa 20 aree militari in disuso tra basi, depositi e postazioni di comunicazione. Alcune abbandonate, altre restaurate e rese visitabili come strutture turistiche. (http://www.sardegnaabbandonata.it/fortezza-capo-dorso/). Sempre nei paraggi, nelle isole che circondano la Costa Smeralda, ci sono vari presidi NATO. A Tavolara c’è una postazione per le comunicazioni a grandissima distanza, a Santo Stefano un deposito munizioni e una base-appoggio per sommergibili nucleari, mentre una parte dell’isola della Maddalena è interdetta al pubblico (http://www.regione.sardegna.it/j/v/25?s=45581&v=2&c=3696&t=1). Nonostante nei giornali si sia parlato a più riprese di una dismissione delle attività militari e nonostante le navi da guerra non siano più attraccate nel porto in bellavista, come sono state per decenni, le basi restano comunque attive, con tanto di testate nucleari nei sommergibili.

Aree militari abbandonate si registrano in tutta l’isola. Quasi ogni promontorio e tutte le cime principali ospitano radar e sistemi di comunicazione (http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o28436:e1). La base USAF abbandonata, sul Monte Limbara, usata dall’aviazione americana durante la Guerra fredda, testimonia l’importanza strategica dell’Isola. La presenza storica di contingenti stranieri è tuttora rilevante considerando che il poligono di Quirra, il più grande d’Europa, viene affittato agli eserciti che ne fanno richiesta per cifre che si aggirano attorno ai 50.000 euro l’ora. Presenza non sempre pacifica, come nel caso dei due caccia tedeschi che hanno mandato a fuoco 26 ettari di territorio attorno alla base militare di Capo Frasca, situata nel comune di Arbus (VS), il 26 agosto 2014 (http://contropiano.org/articoli/item/26170). Durante l’autunno 2015, invece, si è svolta, nella base militare di Capo Teulada, a Teulada (CA), la Trident Juncture, “la più estesa operazione NATO che si ricordi dalla caduta del Muro di Berlino” (definizione dello U.S. Army Europe). Entrambi gli avvenimenti hanno causato una forte opposizione popolare da parte del movimento antimilitarista, molto diffuso, che è riuscito in alcuni casi anche a bloccare le operazioni militari con le proprie iniziative. (http://contropiano.org/archivio-news/documenti/itemlist/tag/trident%20juncture)

Ma non è sicuramente dato solo dai contingenti stranieri il problema relativo alla presenza militare nell’Isola. La Sardegna è occupata militarmente per 35.000 ettari di terra mentre 20.000 chilomentri quadrati di mare sono interdetti alla navigazione e alla pesca a causa delle esercitazioni militari. Per avere un’idea delle proporzioni l’intera regione ha una superficie di circa 24.000 chilometri quadrati.

Le aree militari, soprattutto le tre basi principali, Teulada, Quirra e Capo Frasca, ma non solo, sono al centro di numerose indagini riguardanti reati ambientali, a causa delle sostanze chimiche contenute negli ordigni che vengono fatti esplodere. Sono acclarati casi di inquinamento che in molti casi hanno ripercussioni serie sulla salute delle persone che abitano nei territori limitrofi. In un caso specifico, quello del Poligono interforze del Salto di Quirra, a Perdasdefogu (OG) si è registrata una quantità di decessi per cause tumorali così alta e dalle caratteristiche inedite che ha portato, l’equipe medica che ha seguito il caso, a parlare di “Sindrome di Quirra”. Dalla procura della regione è stata aperta un’indagine perchè sono state usate nelle esercitazioni sostanze proibite come l’uranio impoverito e il torio radioattivo.

In ogni caso, ettari ed ettari di terreno vengono resi interdetti e usati per far brillare ordigni o per stipare materiale residuale tossico. La Sardegna, tra l’altro, anche a causa della sua conformazione geografica, è la regione individuata dallo stato italiano per lo stoccaggio di scorie nucleari, provenienti dall’estero. Dopo un lungo silenzio stampa, le fila politiche hanno rivelato nel 2016 di aver individuato un sito adatto allo scopo nel territorio di Ottana (NU), comune situato pressochè nel centro geografico della Sardegna, ma ben collegato. Quello che è urgente dire, rispetto a luoghi deputati alla sperimentazione militare o allo stoccaggio di materiale atomico, è che spesso non è possibile una bonifica nè un ripristino delle caratteristiche naturali del posto. La maggior parte delle volte l’ambiente contaminato rimane compromesso per generazioni.

Nel 2013, la Regione Sardegna ha commissionato a due ricercatori dell’università di Cagliari, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni, uno studio dal titolo “Comuni in estinzione” (http://www.sardegnaprogrammazione.it/documenti/35_84_20140120091324.pdf) in cui si evidenziano le criticità relative ad alcuni centri abitati che rischiano l’abbandono negli anni anni a venire. In particolare, utilizzando un metodo statistico applicato al calcolo demografico, 33 paesi vengono segnalati come prossimi al totale spopolamento. Sebbene le cause principali del fenomeno siano quelle note a tutti i casi simili (posizione geografica, mancanza di lavoro, mancanza di servizi…) si può notare, aiutandosi con una cartina geografica, che una gran parte di questi paesi si trova nel territorio circostante il poligono interforze di Quirra, il quale, non a caso, è stato situato in un luogo remoto, dalle caratteristiche semidesertiche e costellato di piccoli paesi, spesso isolati tra loro. In una panorama simile è molto difficile si possa creare un movimento d’opinione critico verso la presenza militare: la scarsità demografica e l’isolamento degli abitanti del posto, unite alla diffusa disoccupazione hanno fatto per anni percepire l’arrivo dei militari come una risorsa importante. D’altra parte poche altre opportunità di sviluppo sono state proposte in quei luoghi, che all’occhio si presentano come pianure di sabbia, canyon e speroni di roccia, intervallati da pochi paesi. I ripetuti casi di inquinamento di falde acquifere e di anomali decessi sia di bestiame che di umani hanno riportato all’attenzione generale le cause antimilitariste, al cui movimento si sono uniti numerosi allevatori e coltivatori locali. Citando il documento “Comuni in estinzione” però è forse possibile intravedere una possibilità: lo spopolamento di un paese infatti avviene solo “[…] ove nel corso del tempo non si presentino o non vengano posti in essere fatti, azioni, interventi, comportamenti sia in ambito locale che provenienti dall’esterno tali da poter invertire le tendenze riscontrate sulla base delle conoscenze attuali”.

Dal lato opposto dell’Isola rispetto a Quirra, a ridosso della base di Capo Frasca, sorge il paese di Sant’Antonio Santadì (VS) il quale avrebbe, per posizione geografica e potenzialità, una spiccata vocazione turistica, considerando che si trova tra la penisola del Sinis e la costa Verde, all’inizio di un lembo di terra che avrebbe lo stesso fascino di questi, se non fosse occupato per intero dalla base. Come è facile intuire la presenza militare ha pregiudicato notevolmente le potenzialità turistiche del luogo mentre le attività della base sono accusate di essere tra le principali cause di inquinamento, assieme agli stabilimenti industriali, delle periodiche morie di pesci, nelle vicine riserve ittiche.

La città di Macomer (NU) ha vissuto l’illusione di uno sviluppo spensierato grazie ai soldi portati in paese dai numerosi militari di leva che, fino a qualche anno fa, venivano qui a svolgere il loro servizio. Ora che le attività della caserma sono ridotte al minimo non è difficile, cammindando per il centro città, vedere saracinesche abbassate e negozi sfitti. Qualcuno, evidentemente in buona fede, deve aver pensato a risollevare le sorti economiche del paese ampliando l’inceneritore di Tossillo, zona industriale, per farlo diventare uno dei più grandi termovalorizzatori dell’Isola.

FOTO

parte 1

Carloforte (CI)

Carloforte (CI)

Carloforte (CI)

Carloforte (CI)

Sant'Antonio Santadi' (VS)

Sant’Antonio Santadi’ (VS)

Sant'Antonio Santadi' (VS)

Sant’Antonio Santadi’ (VS)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Sassari (SS)

Sassari (SS)

Palau (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

 parte 2

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

Monte Limbara (OT)

parte 3

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

Perdasdefogu (OG)

parte 4

Bortigiadas (OT)

Bortigiadas (OT)

Macomer (NU)

Macomer (NU)

Mamoiada (NU)

Mamoiada (NU)

Sardegna 2015 / Introduzione

Reportage Sardegna 2015

Di muralismo e streetart. Di spopolamento e accoglienza.

Introduzione

Confrontarsi con la Sardegna per un continentale è in qualche modo confrontarsi con una realtà altra. Il suo essere “isola”, in senso culturale prima che geografico, e la sua vastità, accentuano le complessità di questa regione che a volte viene pensata periferica, rispetto al territorio nazionale, altre volte assume una centralità strategica.

Prima di poter andare a fondo è necessario averne una conoscenza d’insieme e il presente reportage è un tentativo di renderne un’immagine, complessa ma estesa, riguardo alcune tematiche di attualità.

Ho preferito, nei pochi giorni a disposizione, viaggiare in più zone possibile, in tutte le province. Ho preferito percorrere molti chilometri, anche per vedere le varie forme assunte dal muralismo sardo e confrontarle con quelle di opere più recenti.

Durante il viaggio è diventata mia intenzione accennare un ritratto dell’Isola.

A causa della vastità del territorio e del poco tempo avuto a disposizione, tale ritratto potrebbe apparire più simile ad una scansione, nella sua superficialità. Ma la sovrapposizione di vari livelli, come fossero lastre, potrebbe essere utile alla composizione di un quadro di insieme.

C’è la scansione del territorio, le isole attorno / il mare e le profondità che ne definiscono il colore. Le aree marine protette e quelle interdette / le coste, quelle con le lunghe spiagge desertiche e quelle con le scogliere a picco / i tronchi degli alberi, che vanno dal grigio dei pini vicino al mare al rosso dei sugheri, quando la corteccia è stata da poco asportata, nell’entroterra / gli altipiani che definiscono la strada quando si percorrono le vallate / la roccia grigia e friabile dalle parti di Buggerru, quella gialla oro nei dintorni di Lanusei / la macchia mediterranea, che diventa secca e gialla, salendo nelle montagne. I parchi naturali, la Barbagia, il Gennargentu. Gli scheletri del Supramonte.

C’è una scansione di determinate aree culturali i cui confini spesso non corrispondono a quelli delle province: la Gallura, la Barbagia, l’Ogliastra, il Campidano, il Sulcis…

La scansione dei reperti archeologici, che testimoniano le presenze antiche: nuraghe, domus de janas, dolmen.

La scansione delle città. Con Cagliari e Sassari come due poli opposti, una marinara, romantica e dura, fatta di vicoli e salite; l’altra cittadina, vasta e quadrata, fatta di viali e periferie.

Ci sono le aree industriali attorno a queste città. E le ampie pianure di stagni e sterpa. Macchiareddu, Molentargius.

C’è la scansione dei paesi. Che a volte sorgono in posti dove fino a 100 anni fa non c’era nulla. Apparentemente senza storia. Anonimi, accondiscendono al mare d’estate e contano i giorni d’inverno. Ci sono paesi che sembrano villaggi West, e non solo nei casi più eclatanti come San Salvatore di Sinis, ma anche ad esempio nelle forme di alcune chiese di Macomer o Dolianova. Ce ne sono altri custodi di storia, sempre duri al primo impatto, nascosti dai massi delle zone più lontane dalla costa. (http://www.sardegnaabbandonata.it/tandalo/)

C’è la scansione della Sardegna industriale, che si può leggere anche nei nomi dei paesi, da Argentiera a Carbonia. Il parco geominerario storico (http://www.parcogeominerario.eu/) occupa circa un sesto dell’area dell’intera regione ed è segno di qualcosa che è stato e non è più. Qualcosa che oggi lascia il posto alle zone più povere della regione. Tracce che rimangono nel territorio, come l’enorme cementificio abbandonato a Scala di Giocca, alle porte di Sassari (http://www.sardegnaabbandonata.it/cementificio-di-scala-di-giocca/). Una scansione che rileva però anche i poli industriali ancora in attività, quelli che danno lavoro a migliaia di persone e ne uccidono lentamente le famiglie con l’inquinamento: Porto Torres, Portoscuso, Sarroch.

C’è la scansione della presenza militare nell’isola. Nell’arcipelago della Maddalena, a Macomer, a Capo Teulada, a Capo Frasca, nel Salto di Quirra. Presenza non solo italiana come testimonia una base militare dell’aeronautica americana abbandonata, sulla cima del monte Limbara. Presenza che si concentra non solo nelle grandi basi ma anche in tanti piccoli centri, nell’hinterland cagliaritano: Monastir, Decimomannu, Uta, Quartucciu, Elmas. (http://insecondopiano.altervista.org/index/2009/11/occupazione-militare-in-sardegna/)

La scansione dei luoghi di reclusione. Il carcere dismesso dell’Asinara. I penitenziari, che prima venivano costruiti all’interno delle città, come il Buoncammino a Cagliari e il San Sebastiano a Sassari, entrambi al centro di progetti di riconversione d’uso (http://lanuovasardegna.gelocal.it/regione/2013/09/28/news/nel-vecchio-carcere-la-storia-di-sassari-1.7825136). Ci sono varie strutture che oggi si preferisce tenere lontane dai centri abitati, cosa facile in un territorio come quello sardo. Ci sono i manicomi abbandonati, sostituiti dagli OPG, che presto ci abitueremo a chiamare REMS (http://www.manifestosardo.org/manicomio-sardegna/), oppure dai reparti di psichiatria delle aziende ospedaliere. C’era, fino a pochi mesi fa, il CSPA-CARA di Elmas, che non si chiamava CIE, così come i CIE non si chiamano più CPT, ma che ospitava comunque circa 300 rifugiati in un luogo che aveva tutte le sembianze di una prigione, inglobata in un ex aeroporto militare. (http://www.meltingpot.org/Cpa-di-Elmas-La-denuncia-delle-associazioni-il-centro-e-una.html#.VoKeVLu3D5L)

C’è anche una scansione dei cibi proibiti. Il casu martzu. Il filu ‘e ferru. Anche da questi si può avere un’idea del rapporto complicato della Sardegna e delle sue tradizioni con le leggi italiane o europee.

C’è l’usanza di scrivere e disegnare sui muri. Di lasciare tracce. Di lottare e poi lasciare tracce. Di proseguire una tradizione. Di dire qualcosa a tutti.

FOTO

/// parte 1

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Lanusei (OG)

Tuaredda (CA)

Tuaredda (CA)

Carloforte (CI)

Carloforte (CI)

Is Arenas (OR)

Is Arenas (OR)

Su Murrone (SS)

Su Murrone (SS)

Lido del sole (OT)

Lido del sole (OT)

/// parte 2

Lido del Sole (OT)

Lido del Sole (OT)

Palau (OT)

Palau (OT)

Fondorgianus (OR)

Fordorgianus (OR)

Fondorgianus (OR)

Fordorgianus (OR)

San Salvatore di Sinis (OR)

San Salvatore di Sinis (OR)

Narcao (CI)

Narcao (CI)

/// parte 3

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Argentiera (SS)

Riassunto di 8 anni di NoExpo per chi l’ha conosciuto il Primo Maggio

Voglio fare un breve compendio di quello che è ed è stato il movimento NoExpo, dal 2007 ad oggi.

Questo pur consapevole dei rischi di superficialità e dimenticanze insite nell’operazione. Lo faccio perchè mi rendo conto che il numero di persone venute a conoscenza del movimento solo con le vetrine rotte e le auto in fiamme è insospettabilemente enorme; il numero di persone convinte che chi ha praticato la violenza rappresenti tout-court il movimento NoExpo ugualmente impressionante. Il potere dei mass-media mainstream cui siamo sottoposti, indissolubilmente legato ai vertici economico-politici, funziona perfettamente: quello che decide di mostrare viene creduto reale, d’altra parte nessuna spiegazione è richiesta dall’opinione pubblica. L’evento mediatico “devastazione” (termine usato dalla stampa, in cui è già implicita la sentenza) è il meccanismo che ha funzionato meglio.

A partire dalla visione del progetto iniziale di Expo si formano dei comitati, inizialmente locali, poi allargatesi a realtà ecologiste. Un esempio è il comitato NoCanal. Il progetto iniziale di Expo infatti prevedeva la realizzazione di una “via d’acqua” che sarebbe servita ad approvvigionare l’area espositiva, incentrata sull’agricoltura. Tale canale avrebbe addirittura dovuto essere navigabile, per lo scambio merci, il tutto a spese di tre parchi pubblici cittadini, tra cui il parco di Trenno, che avrebbero dovuto essere cementificati per consentire la costruzione del canale. Tra i meriti della mobilitazione NoExpo, quello di aver salvato quasi per intero queste aree verdi, riuscendo a far ridimensionare il progetto, vittoria segnata ben prima del 1 Maggio 2015.

Sempre per costruire la famigerata via d’acqua il comune di Milano e la regione Lombardia hanno provveduto ad espropri di terreni agricoli, allargando il consenso del movimento ad una fetta di lavoratori della terra che, magari, praticavano veramente agricoltura biologica.

Il tema dell’agricoltura ha anche portato il movimento ad interrogarsi sulla bontà degli slogan di Expo (“nutrire il pianeta”) quando sono stati resi noti gli sponsor dei vari padiglioni: McDonald’s (che per l’occasione ha rivisitato la sua veste comunicativa in chiave “green”), Coca-Cola, Nestlè, Eni, Enel, Pioneer-Dupont, Selex-Es ecc… La spudarata ipocrisia di chi organizza una fiera mondiale sul delicato tema del cibo e della fame e lo fa con l’aiuto di chi disbosca l’Amazzonia, ruba acqua e petrolio all’Africa e sfrutta manodopera a basso costo in Asia ha portato ad avvicinarsi al movimento gran parte della galassia No-Global, presente sul territorio ed attiva per lo più (ma non solo) nei centri sociali.

E sempre a proposito di sponsor la questione della presenza di Eataly, guidata da uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Renzi, a cui sono stati affidati, senza bando, i due padiglioni principali, col gravoso compito di rappresentare l’Italia, ha contribuito al formarsi di ulteriori alleanze tra i NoExpo e quegli altri collettivi impegnati a decostruire la retorica del marketing farinettiano.

Quando Expo ha aperto i bandi per reclutare i lavoratori necessari durante i 6 mesi dell’evento, il movimento NoExpo si è allargato alle realtà del mondo sindacale, dato che per la maggior parte delle posizioni lavorative non era prevista retribuzione. Questione, quella del volontariato, a cui, nonostante le diverse promesse fatte da Expo riguardo la creazione di circa 70000 posti di lavoro (non mantenute), non si è riusciti a porre rimedio.

Nei contratti retribuiti stipulati, arrivati in prossimità dell’inaugurazione, vi è stabilito che il lavoratore  rinuncerà per la durata dell’evento al diritto di sciopero e che si renderà disponibile per lavorare in qualunque giorno della settimana. I più attenti attivisti nel campo dei diritti dei lavoratori hanno visto in questo una sorta di sperimentazione di nuove forme di sfruttamento da applicare, in futuro, a tutto il mondo del lavoro. E’ per questo che, anche grazie alla subdola scelta di inaugurare Expo il 1 Maggio, c’è stato un naturale confluimento dei movimenti che organizzano la MayDay parade nella mobilitazione NoExpo. La MayDay parade è, da almeno 15 anni, un appuntamento fisso a Milano e parte del più generale appuntamento europeo del 1 Maggio. Ogni anno porta in piazza le realtà del mondo antagonista nel campo sindacale e ha visto nascere realtà come San Precario, che hanno contribuito a creare massa critica e attiva attorno alle riforme del mondo del lavoro, a partire dalla legge 30/2003 in poi.

Nel frattempo venivano aperti i cantieri (i lavori sono per lo più ancora in corso) per la realizzazione delle 15 grandi opere, prevalentemente strade, connesse ad Expo. L’ironica combinazione che ha voluto queste infrastrutture costruite tramite cementificazione di terreni agricoli e la constatazione che a vincere i bandi siano state le stesse aziende edili impiegate nei lavori relativi ad altri ecomostri, ha rinsaldato la comunione tra NoExpo e altri movimenti di opposizione alle grandi opere, NoTav in primis.

Le questione degli esorbitanti costi di realizzazione dell’opera, ottenuti contraendo un debito con le solite banche private ha probabilmente avvicinato ai NoExpo quanti si battono per un uso della spesa pubblica utile al sociale: il movimento per il diritto all’abitare, giusto per citarne uno, in questi anni in rapida ascesa a causa delle decine di sgomberi che ogni giorno lasciano famiglie insolventi senza dimora.

Nel frattempo la magistratura incominciava ad indagare riguardo la corruzione negli appalti, scoprendo segreti di pulcinella e contribuendo ad allargare il consenso popolare attorno al movimento, almeno in quella fetta di popolazione ancora moderatamente dotata di spirito critico e non totalmente succube della narrazione mediatica dominante.

Poi c’è stato il 1 Maggio di Milano. Ogni forma di lotta ha il suo apice. A questa data il movimento NoExpo è arrivato così, dopo 8 anni di battaglie e anche di vittorie. Pure nella sinteticità e fretta (ho  ricostruito a memoria e non necessariamente in ordine cronologico) spero di aver reso un’idea della complessità della mobilitazione e della sua formazione.

Io credo che di questo dovremmo parlare. Di questo e delle prospettive future della lotta.

Riguardo gli scontri non voglio esprimere giudizio, anche perchè non c’ero e non tutto mi è chiaro. Per chi ha voglia di giocare al gioco del manifestante buono e di quello cattivo suggerisco la seguente raccolta di comunicati/articoli di movimento (in aggiornamento):

Dopo il corteo del 1 Maggio, riflettiamo per non cadere nella dicotomia tra “buoni o cattivi”.

Primo Maggio, su, coraggio – Una raccolta di contributi per il dibattito sulla #NoExpoMayDay2015

https://www.tumblr.com/danslarue1312/118069428379/lexpo-e-linternazionale-senza-nome-il-carattere

Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/02/corteo-no-expo-troppa-visceralita-nelle-reazioni-ai-black-bloc-di-milano/1645822/

http://www.informa-azione.info/milano_1%C2%B0_maggio_no_expo_sempre_complici_e_solidali_comunicato_della_rete_evasioni

http://ilmanifesto.info/storia/cento-colpi-di-spugna-tra-roma-e-milano/

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Il mio pensiero è per Klodian Elezi, ragazzo albanese di 21 anni, morto mentre lavorava senza dispositivi di sicurezza in un cantiere correlato ad Expo, nella fretta di terminare in tempo i lavori.

Gentrificazione, azione e reazione: il progetto Staveco, Bologna.

Il Comune e l’Università di Bologna hanno recentemente ufficializzato l’accordo per la realizzazione di Campus 1088, ovvero il progetto Staveco, un’area di 93.000 mq da trasformare in un centro universitario, sul modello, appunto, dei campus americani.

Dopo il recente intervento relativo al Lazzaretto e le relative ombre, Unibo ci riprova. L’area in questione si trova appena fuori i viali del centro storico ed è una zona che nel corso del tempo è stata adibita a varie funzioni di tipo militare, oggi abbandonata. A progetto concluso, nei piani di Unibo, nel campus troveranno casa i dipartimenti di alcune facoltà che al momento hanno sedi frammentate e sparse nel territorio bolognese (come ad esempio Informatica ed Economia) ma anche alcuni dipartimenti che hanno già una sede unitaria e ben funzionante e che verranno semplicemente spostati, vedremo più avanti perchè (ad esempio il DAMS). Inoltre il campus dovrebbe contenere anche biblioteche, mense, uno studentato, un’area commerciale (ebbene sì, pubblicizzata come “commercio in strutture di vicinato e artigianato di servizio” difficilmente proporrà beni economici), un Faculty Club (strutture ricettive per studenti, anche in questo caso di alto profilo, se guardiamo agli esempi delle Università internazionali a cui ci si ispira), impianti sportivi e un immancabile parcheggio (4oo posti). Dei 93.000 mq totali dell’area circa 42.000 dovrebbero essere edificati. Il che, a onor del vero, non è molto dissimile dalla conformazione attuale dell’area, che pure versa in stato di abbandono, e non dovrebbe quindi, restando così le cose, dar adito a proteste per questioni legate alla cementificazione. Dovrebbe però far sorgere qualche dubbio la constatazione che, per ottenere questi 42.000 mq, l’Unibo sta svendendo palazzi per un totale di… circa 40.000 mq. Nulla di strano in generale, dato che una riorganizzazione dell’assetto universitario potrebbe essere una cosa positiva, soprattutto per quelle facoltà, come accennato prima, frammentate nel tessuto urbano, senza una sede centrale. Ma quando si parla di svendita di patrimonio pubblico (in tempo di crisi non si può genericamente parlare di dismissione) bisogna andare con calma ed analizzare le cose da vicino.

L’opera in totale costerà circa 100 milioni di Euro e c’è già la presa di posizione di chi rivendica la necessità piuttosto di un investimento volto ad abbassare i costi per gli studenti. Il comune ha fatto la sua parte mettendo a disposizione l’area e rinunciando alla percentuale di profitto che gli sarebbe spettata, ma il grosso dei finanziamenti necessariamente arriverà dalla vendita dei palazzi storici che l’Università possiede in tutta la regione. E’ per questo motivo che la gestazione di Staveco è stata più lunga di quanto inizialmente prospettato, ma alla fine l’accordo con l’Agenzia del Demanio è stato raggiunto e anche il Ministero delle Economie e delle Finanze ha approvato il piano finanziaro di Unibo, che prevede la dismissione di 9 immobili, tra cui alcuni palazzi storici e due ville. Tra questi palazzo Malveggi-Campeggi, sito di pregio collocato in via Zamboni, sede storica di Giurisprudenza, Facoltà dalla sede tutt’altro che frammentata. Palazzo Marescotti-Brazzetti, via Barberia, immobile storico dagli affreschi e dai particolari archittettonici di indubbio valore artistico, in passato sede del PCI Bolognese e, da poco più di 5 anni, sede del DAMS, ancora fresca di una lunga e costosa ristrutturazione che l’ha reso uno dei dipartimenti più nuovi ed efficienti dell’Università di Bologna. Villa Guidalotti ad Ozzano dell’Emilia, palazzo cinquecentesco dai soffitti affrescati, il cui stato di inutilizzo non giustifica in alcun modo la svendita, soprattutto vista la possibilità che si è avuta nel corso del tempo di un suo impiego, ad esempio nell’ambito dell’Agraria e Veterinaria, problema a cui si è preferito rispondere come al solito col cemento, con la costruzione di un polo universitario al Pilastro (via Fanin). Villa Levi a Reggio Emilia, datata 1600 e più volte nel corso dei secoli oggetto di lavori, porta in sé i segni di almeno 4 correnti storiche e artistiche, l’ultima delle quali è il Liberty novecentesco delle sue decorazioni interne. Specifico per correttezza che altri palazzi, tra quelli messi in vendita, non hanno tale importanza storica e architettonica, ma quelli finora elencati mi sembrano abbastanza per una qualche riflessione.

Impossibile non mettere in discussione l’idea stessa di svendere (a chi? e cosa diventeranno?) palazzi storici del patrimonio pubblico per costruire un polo universitario che, con tutta la buona volontà, difficilmente avrà pregi archittettonici. Il patrimonio pubblico così perso non potrà essere recuperato. Se la crisi, causata dal capitalismo finanziario, è la responsabile che ha messo le istituzioni italiane nella condizione di svendere il proprio patrimonio e di dover creare sempre nuove speculazioni per sopravviere, è anche palese che gli unici a trarne profitto saranno quegli stessi speculatori che l’hanno causata e che riusciranno a mettere le mani sui suddetti palazzi storici a prezzi di saldo.

Se riguardo il nuovo progetto non ci sono, mi pare, particolari che facciano gridare allo scandalo, bisogna invece rivolgere uno sguardo preoccupato all’idea di città che traspare da tale scelta, da parte dell’amministrazione comunale. Infatti, anche se è stata abbandonata l’idea di trasferire in massa le Facoltà nell’area di Staveco, in funzione della creazione di un più aleatorio “polo dell’eccellenza” “ad alta vocazione internazionale” è chiaro che il dato appetibile ai fini elettorali per la giunta è quello del “decongestionamento del Centro Storico”. La città di Bologna senza i suoi studenti risulterebbe un enorme contenitore vuoto e, passatemi l’espressione, privo di senso. La più antica Università occidentale (1088, appunto, l’anno di nascita) ha infatti consentito a Bologna di distinguersi dalle sue anonime sorelle emiliane e, attualmente, porta 80.000 studenti l’anno in dote alla città trasformandola in uno dei centri più vivaci culturalmente (e ricchi) d’Italia. Unibo è, per numeri ed importanza, “la prima impresa dell’Emilia-Romagna”. Svuotare il centro storico, ripulirlo, riempirlo di costosi negozi per lo shopping e l’aperitivo, adibirlo a vetrina per turisti risolve sicuramente qualche grattacapo all’amministrazione. Ad esempio quelli legati all’ordine pubblico ed al decoro. Ma, in un’immagine, allontana dalle strade di Bologna la vita quotidiana, costituita dall’incontro tra gli studenti ed i commercianti del luogo.

La creazione di un campus inoltre rappresenterebbe una brusca rottura nelle abitudini aggregative degli studenti, perchè questo sposterebbe il baricentro delle giornate degli studenti, allontanandoli dal centro. Questo produrrà verosimilmente un ripiegamento nel privato e, per chi può permetterselo, nelle modalità di aggregazione a pagamento e, contemporaneamente, un’allontanamento dall’attuale Zona Universitaria (piazza Verdi, via Zamboni). Tale passaggio se non mediato e meditato costituirà un peggioramento della qualità della vita degli studenti, sempre più isolati e lasciati in mano all’imprenditoria immobiliare privata e al business dell’intrattenimento, sempre più incapaci di coltivare modalità di socialità e condivisione gratuita.

Allo stesso tempo, la Zona Universitaria, sempre sull’onda del ciclone per questioni legate all’ordine pubblico, cambierà lentamente pelle e vedrà sempre meno studenti. Come ho già avuto modo di dire qui, uno degli aspetti più preoccupanti delle trasformazioni in atto nella zona in questione è lo scollamento progressivo tra studenti e altri avventori di piazza Verdi. Ricordo che solo 10 anni fa c’era una tangibile vicinanza e continuità. Oggi, con gli studenti sempre più borghesi ed alienati da un uso massiccio di nuove tecnologie, ragazzi di strada e migranti vengono sempre meno a contatto con la vita studentesca, aumentando il loro grado di estraniamento e ingrassando le fila del disagio sociale. Da molto tempo si insiste col dire, da più parti e basandosi su esperimenti riusciti, che le emergenze sociali si combattono con l’inclusione, con la vicinanza solidale, con le operazioni culturali attive nei luoghi critici e, per tutta risposta, quello che si è avuto dall’amministrazione, è stata una continua e sterile militarizzione della zona in questione. Ora si cercano di togliere gli studenti di mezzo. Così sarà probabilmente poi più facile allontanare i senza dimora e passare una mano di bianco, senza risolvere veramente granchè. Cancellare così modalità relazionali gratuite e trasversali dovrebbe essere tabù in una città che in passato ha fatto vanto dei propri servizi sociali, oggi ridotti al lumicino.

Va inoltre anche messa a fuoco la questione del campus in sé per sé. Il concetto appartiene infatti alla cultura scolastica americana e, come ribadito anche dal sindaco, si tratta di un progetto “senza precedenti in Italia”. La cultura del campus infatti, dove gli studenti vivono tutti assieme, isolati dal resto della società, non trova riscontro nella nostra cultura, dove le città nascono nel tessuto urbano, mescolate con le botteghe degli artigiani e dei commercianti, a stretto contatto con la vita del luogo. Il territorio americano, con i suoi spazi enormi, le sue città recenti e prive di centro storico, la sua cultura nuova e iper-specializzata ben si offre alla modalità del campus. Ma da noi questa non trova riscontro e suona anche piuttosto stonata in un periodo in cui la retorica del mainstream è ben attenta a esaltare solo ciò che è tipico, locale e che appartiene alla propria storia e cultura. Ma senza andare tanto in là vorrei sottolineare la perdita culturale implicita nella scelta di togliere le migliaia di nuovi studenti che arrivano ogni anno a Bologna dal contatto diretto e quotidiano col tessuto cittadino. Perdita, beninteso, reciproca.

Gli studenti sono da sempre parte attiva nella vita e nelle vicende cittadine. Se l’afflusso in massa in città ha difatti trasformato il volto cittadino e ha causato un vertiginoso aumento dei costi della vita in alcune zone, è pure vero che questo ha determinato la ricchezza di alcune fasce sociali. Sugli studenti è stata fatta, in alcuni ambiti, una speculazione senza mezzi termini che ha determinato, ad esempio, l’innalzamento del costo degli affitti e dei beni nella zona universitaria. A questa è conseguito un cambiamento nel genere di attività commerciali presenti, con la comparsa di locali sempre più costosi ed esclusivi. Ora, perchè il processo di gentrificazione sia completo, bisogna togliere dalla strada tutti quei soggetti che reclamano lo spazio universitario cittadino come un diritto gratuito e non come un luogo commerciale, a cominciare dagli studenti.

Nel corso degli ultimi dieci anni si è combattuta una vera e propria battaglia mediatica (leggi: campagna elettorale) da parte dell’amministrazione, volta a creare un’emergenza degrado in grado di far leva sulla sensibilità più grossolana dei residenti (che votano) da contrapporre alla presenza fastidiosa degli studenti (che non votano). Problema questo al quale la giunta si prepara a dare un’eccellente risposta, grazie a Staveco. Eppure non posso che rilevare come l’emergenza degrado sia in realtà un fenomeno fittizio creato ad hoc nelle menti delle persone da una vergognosa ed asservita stampa locale ed alimentato coscienziosamente con lo svuotamento dei contenuti e delle attività culturali, con la desertificazione dei servizi sociali, con ordinanze repressive che svuotano la zona dai presidi commerciali creando di fatto i presupposti per la situazione che contemporaneamente si va condannando. Non posso inoltre non rilevare che il cambiamento di atteggiamento degli studenti, preoccupati solo di consumare (che si tratti di alcool o di vestiti) e incuranti della città, corrisponde al cambiamento di mentalità di una generazione cresciuta con i vuoti messaggi televisivi.

Il disagio sociale che si manifesta nelle strade della Zona Universitaria deve, a mio avviso, essere incanalato in forme culturali attraverso attività collettive, tenendo sempre a mente la storia artistica di Bologna, dal ’77 ad oggi, che proprio ad esso deve alcune delle sue esperienze più significative.

 

Per un dossier su Staveco: http://hobo-bologna.info/2015/01/30/inchiesta-staveco/

Nota: Le parti virgolettate sono prese dagli articoli citati nei link.

Abbiamo fatto una statale, facciamone due.

In mancanza di risposta da parte del quotidiano locale, a cui era stata inizialmente indirizzata, riporto qui una lettera aperta alla cittadinanza in merito ad una superstrada in progetto di costruzione nel mio paese.

Non essendoci possibilità, evidentemente, di dialogo, tolgo i riferimenti: fino a quando non riceverò risposta/pubblicazione, essa rappresenta solo i meccanismi in atto in molte realtà italiane.

All'attenzione della redazione di [...]

Spett. Redazione vorrei scrivervi in relazione al vostro articolo riguardo il progetto della statale [...] che dovrebbe collegare [...] allo svincolo per [...]. Non essendo tale articolo firmato indirizzo la risposta alla redazione tutta. 

Colgo l'occasione per cercare di instaurare un dibattito sull'opera, nel tentativo almeno di instillare un dubbio sulla stessa, in quanto mi pare che le opportunità per farlo non siano molte. Ho trovato interessante il fatto che abbiate messo in luce un probabile risvolto negativo della stessa, specificando la contrarietà di tutti quei commercianti presenti lungo il vecchio tratto della [...], che soffrirebbero del calo dei transiti a causa del nuovo tracciato. Devo comunque sottolineare che non può essere la sofferenza economica l'unico motivo di unione tra cittadini, perciò vorrei esprimermi a riguardo. 

- La costruzione di tale superstrada comporterebbe, come da voi specificato, la realizzazione di 3 gallerie, 4 viadotti e 3 sottopassi. In contesto naturalistico come il nostro non si può non specificare il grave impatto ambientale di un simile progetto, considerando il disboscamento, la cementificazione, lo sversamento delle estrazioni degli scavi e l'inquinamento del fondovalle e dei relativi corsi d'acqua. La realizzazione di una galleria non è mai un'opera indolore, dato che cambia e spesso mette in pericolo l'ecosistema stesso della montagna in cui viene realizzato. Inoltre comporta l'estrazione di materiali e polveri cancerogeni, riguardo ai quali si pone il problema dello smaltimento. L'inquinamento di un corso d'acqua, inoltre, è un qualcosa che crea ripercussioni non soltanto nelle immediate vicinanze ma in tutto il bacino interessato dallo stesso. 

- Non è superfluo in questa sede riflettere sul concetto di isolamento che la nuova [...] dovrebbe contribuire ad abbattere. In un contesto come quello [...], votato al turismo e all'arte, risulta particolarmente fuoriluogo trovare soluzioni strategiche che mettano in crisi l'aspetto paesaggistico e naturalistico. Pensare la valle antistante il paese come una possibile zona industriale, un continuo di capannoni e fabbriche è cieco oltre che folle. Non credo quindi che quello che possa aiutare nello sviluppo il paese sia un infrastruttura del genere, quanto piuttosto una progettualità volta alla valorizzazione delle particolarità del posto. 

- Pensare ai progetti infrastrutturali in maniera organica significa anche considerare il fatto che, dall'altra parte del paese, sta venendo realizzatas un'altra strada a scorrimento veloce che dovrebbe comunque collegare il paese alla [...]. Davvero, da nessuna, adesso ne servono due? 

- Per quanto riguarda il lavoro si può fare lo stesso discorso. Pensare che una strada a scorrimento veloce porti automaticamente dei posti di lavoro in più è un argomento da politicanti. La vera soluzione è comprendere la vocazione del posto e fare uno sforzo comune per aiutarne la piccola economia che può generare, fatta di turismo naturalistico, turismo artistico, agricoltura, filiere alimentari e piccole imprese locali. Magari creando connessioni economiche con i più remoti angoli del pianeta, senza che questo voglia dire avere una strada più larga. 

- Posti di lavoro che verranno a crearsi per la realizzazione della statale stessa termineranno con la fine lavori, prevista in 40 mesi. 

- Pensare di emancipare l'economia di [...] dalla schiavitù del cemento, cui ciecamente ci si è votati, potrebbe essere un segnale forte: il primo vero segnale di ripresa. I cementifici hanno immobilizzato, mentalmente oltre che nella pratica, la vita lavorativa del paese e, quando hanno cominciato a soffrire i primi sintomi di crisi, non hanno esistato a lasciare a casa tutte quelle persone che avevano barattato la loro indipendenza professionale con una vuota promessa di stabilità. Inoltre è ormai appurato che la cementificazione non è sintomo di progresso, tutto ciò che è nuovo, come dimostrato dall'industria dell'energia, è verde. 

- Riguardo il problema della sicurezza non posso fare a meno di rilevare l'ipocrisia di chi spende ben 76 milioni di euro quando molti meno basterebbero ad allargare la strada e creare marciapiedi e passaggi pedonali dove possibile, a rivedere completamente la segnaletica di sicurezza, ad adottare dissuasori di velocità e a curare la manutenzione per molto tempo. 

Spero in una pubblicazione inquanto, come detto sono in cerca di un riscontro riguardo le idee qui espresse. 

Grazie, 
b.

UGO: Unica Grande Opera

Riporto una lettera indirizzata ad alcuni movimenti territoriali di lotta con la quale si segnala e si spiega l’iniziativa UGO: Unica Grande Opera. Tale invito vale per tutte le realtà territoriali.

I contatti dei comitati citati possono tutti essere reperiti su fb,

C.A.

-Rete Stop Autostrada Orte-Mestre
-Comitato No Inceneritore Fossato di Vico
-Comitato No Corridoio Roma-Latina
-Comitato No Bretella Cisterna-Valmontone

Sono a segnalarvi un'iniziativa lanciata dal collettivo di scrittori Wu Ming tramite il loro blog a tutte le realtà territoriali di lotta alle grandi opere: UGO ovvero l'Unica Grande Opera.

Gli stessi definiscono tale iniziativa, fissata per l'8 Dicembre 2015 come "Mobilitazione nazionale simultanea e molteplice contro lo scempio dei territori, i baracconi mangiasoldi, le devastazioni ambientali, e per avere UGO, l’Unica Grande Opera che valga la pena fare: risanamento e messa in sicurezza dei territori, lotta al dissesto idrogeologico, decongestione del paesaggio."

Sarà praticamene un'iniziativa mirata ad unire i vari movimenti nazionali tramite una mobilitazione comune, ma che ognuno porterà avanti nel proprio territorio, tramite le proprie pratiche.

"Non il rituale concentramento nella Capitale, ma, al contrario, il manifestarsi contemporaneo e incontrollato di tutte le realtà, là dove sono attive e producono saperi. Ognuna secondo le modalità che preferisce: corteo, occupazione, blocco, sit-in, convegno, concerto, festa, spesa proletaria, azione diretta…"

Un giorno per agire in comune in maniera diffusa, in tutto il territorio interessato. Un giorno al quale arrivare attraverso un anno di iniziative.

Qui trovate il link al post in questione: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=19913
Sotto al quale si può partecipare alla discussione riguardante.

Si può aderire, comunicarlo attraverso i propri canali e portare avanti le proprie iniziative.

Un saluto a tutti.

b.

 

Lettera aperta ad un sindaco neo-eletto

Egr, [...]

Innanzi tutto voglio congratularmi con lei per lo straordinario successo ottenuto alle passate elezioni.
Segno indubbio della bontà del suo operato e della fiducia che molti cittadini ripongono in Lei.

Le scrivo perchè trovo significativa la sua vittoria nella città di [...], storicamente feudo della sinistra, soprattutto se messa in relazione alla sconfitta del partito di governo. Dico questo perchè voglio vedere nella sua vittoria, non tanto la vittoria del cittadino X sul cittadino Y, quanto piuttosto la vittoria di un movimento locale contro il PD. In quest'ottica infatti voglio riconoscere ai nostri concittadini la capacità che hanno avuto di evitare la trappola della vuota retorica del partito e di tutelarsi contro chi si sta distinguendo, in tutta Italia, come un'enorme macchina per l'assegnazione di grandi appalti per opere altamente impattanti quanto inutili e, più in generale, come un sistema verticistico e strettamente gerarchico.

Nel vuoto del sistema partitico italiano trovo di grande valore il suo risultato che è riuscito ad evitare le destre, il suddetto partito e i facili populismi a cinque stelle.

Senza entrare troppo approfonditamente nel merito le elenco in breve quali sono i principali appalti a cui mi riferisco. Naturalmente quando dico che il PD ha interessi in un determinato appalto mi riferisco o a lavori assegnati a costole dello stesso partito (Legacoop, CMC...) oppure a privati notoriamente sponsor o comunque vicini a suddetta area.

 Il partito democratico ha i suoi interessi nella realizzazione della seconda linea ad alta-velocità Torino-Lione (la prima, lo ricordo, è utilizzata solo al 30%).
Ha inoltre interessi nella realizzazione di altri tratti AV tra cui quello Bologna-Firenze.
Recentemente perfino renzi è arrivato ad ammettere le responsabilità del PD nella realizzazione del MOSE di Venezia.
E' implicato negli scandali dovuti all'assegnazione di appalti relativi ad EXPO 2015 Milano.

Anzichè continuare con gli esempi vorrei chiederle di vigilare sulla situazione in paese, poichè quello che viene applicato alla nazione viene riportato anche nel locale. La nostra zona ha una straordinaria vocazione naturalistica e architettonica che va preservata. Le voglio chiedere di esprimere subito un parere forte sulla volontà di bruciare rifiuti CSS nei forni delle cementerie. Le chiedo anche di prendere posizione sulla realizzazione della strada a scorrimento veloce che dovrebbe collegarci allo svincolo della superstrada (quando un altro collegamento veloce già esiste, dall'altro lato del paese...). Ho già avuto modo di scrivere la mia idea su queste due opere qui e non vorrei rubare altro spazio in questa sede.

Mi permetto solo di dirle che queste opere sarebbero oltremodo impattanti per l'ambiente, per l'aria che respiriamo (che già sfora i limiti consentiti del 90% ogni anno) e in generale per la dimensione archittetonica e paesaggistica del paese. Naturalmente la rinuncia ad alcune opere non può essere fatta senza un emancipazione da alcune parole d'ordine, ormai vuotate di significato, che sempre le accompagnano, come ad esempio "progresso"... E a questa riflessione va fatta seguire la consapevolezza di dover costruire e valorizzare un nuovo tipo di approccio al lavoro: la crisi ci ha insegnato che i cementifici seppure creano lavoro, creano del lavoro comunque incerto e che, in definitiva, tutti i lavori lo sono. Quindi vale la pena ripensare dove si vuol spostare l'ago della bilancia nel merito del rapporto con i cementifici della città.

Nell'ottica di un cambiamento tanto radicale di prospettiva, ne approfitto per darle solo un suggerimento valido come sperimentazione, in piccole aree, di processi volti ad aumentare il senso civico e la partecipazione: l'Autogestione. Incentivi l'individuazione di aree esterne o interne da far gestire direttamente ai cittadini, aree in cui si possa curare il verde, coltivare un orto, creare un ambiente per incontrarsi, creare street-art, ecc... E lasci, a chi prende l'incarico, la responsabilità di rispondere del risultato. Personalemente, lo trovo il miglior esercizio civico possibile.

Nel salutarla,
la ringrazio e le faccio i migliori auguri.

Cosa vuol dire avere un cementificio in paese: Inceneritori e superstrade

Nella “verde” Umbria, in una valle circondata dagli Appennini, nel mio paese, si vivono da mesi, in accordo col clima generale che si respira in Italia, tensioni legate alla realizzazione di “grandi opere”. Una di queste è sicuramente la polemica riguardante il progetto di costruzione di una strada a scorrimento veloce, che raddoppierebbe di fatto la strada che attualmente collega il paese con la superstrada. Una seconda riguarda la formazione di un comitato cittadino “No-Inceneritore”, in quanto le cementerie del paese (due) premono per ottenere il via libera all’incenerimento dei rifiuti CSS nei loro forni, reso possibile da un passato ministro, nel 2012.

Mi rendo conto del fatto che parlare di queste due cose contemporaneamente può risultare confusionario. D’altra parte non intendo affrontare nello specifico i problemi delle due opere, aventi ognuna le proprie particolarità. Spero di riuscire ad affrontare in futuro entrambi i casi singolarmente. Per ora mi interessa ragionare sulla spinta irrazionale verso la realizzazione di opere altamente impattanti verso l’ambiente, che sembra non risparmi neanche situazioni di elevata vocazione naturalistica e storica, come quella da cui provengo.

Parliamo di strade.

Credo che  vada de-costruita l’aura di progresso legata alle opere infrastrutturali. Se nessuno può negare che una città con pretese turistiche risulti svantaggiata da una posizione geografica difficilmente raggiungibile, è altrettanto evidente che spesso è proprio la posizione geografica particolare che permette nel tempo a certe caratteristiche naturali o urbanistiche di mantenersi inalterate. Il progresso è un termine vuoto, quello che poteva essere desiderabile solo dieci anni fa, oggi può risultare uno sbaglio. I territori, che per varie ragioni hanno perso il treno della realizzazione di grandi collegamenti nei periodi di cementificazione indiscriminata, potrebbero rivelarsi avvantaggiati. Dipenderà dalla loro capacità di prendere coscienza del tesoro che rappresenta un ambiente incontaminato.

La difficoltà che si può incontrare quindi nel raggiungere un contesto non del tutto urbanizzato è a questo punto indivisibile dall’esperienza di vita in suddetto contesto. Certo per chi in questi posti abita il disagio può essere alto. Ma bisogna domandarsi cosa voglia dire affrontare la questione nella direzione del miglioramento delle comodità ad ogni costo, causando disastri e devastazioni di cui ci si potrà pentire per anni e che non saranno in alcun modo sanabili.

Il cambiamento che si deve produrre è perciò nella mentalità ma anche nella quotidianità delle persone. Questi cambiamenti non sono impossibili: sono frutto di percorsi di formazione a cui le amministrazioni e i politici, se in buona fede, dovrebbero provvedere. Mi riferisco in particolare ad un cambiamento nella prospettiva comune che vede il paese come mera periferica della città.

E parliamo di inceneritori.

In linea di massima il ragionamento è lo stesso. L’inizio di un attività del genere nei forni delle cementerie moltiplicherebbe l’immissione di inquinamento, anidride carbonica, diossine e CMR (sostanze Cancerogene, Mutagene e tossiche per la Riproduzione) in un ambiente in cui, bisogna ricordarlo, il tasso di anidride carbonica immesso dalle industrie viene già sforato del 90% ogni anno. Tutto questo, in un contesto di primo piano dal punto di vista ambientale, è stato tollerato in virtù dell’occupazione che ha generato nel tempo (e del bacino di voti che tale occupazione è andata a garantire). Tale baratto si è però rivelato per la presa in giro che è nel momento in cui, con la crisi, gli stabilimenti non hanno esitato a fare ricorso alla cassa integrazione. Per inciso, sembrerebbe che l’inizio di un’attività di incenerimento rifiuti non comporti un aumento di personale sostanziale.

Anche in questo caso occorre decostruire il mito del progresso che fino a qualche tempo fa vedeva nell’industria e nei collegamenti veloci i suoi cavalli di battaglia. Quest’idea continua ad essere valida solo nella mente di quegl’imprenditori che vogliono arricchirsi con le opere da realizzare e in quella dei politici che da questi ricevono appoggio, ricambiandolo con permessi particolari.

Il progresso, basta avere un po’ di buon senso, ormai non ne può più della retorica del costruire: oggi progresso, è una mia opinione, vuol dire valorizzare e ristrutturare. L’ambiente attorno ai cementifici ha pagato a caro prezzo la presenza dell’industria che ospitava vedendo erodere lati interi di montagna: ma ancora più pesante sarà questa eredità se non si riuscirà a creare una prospettiva diversa per tutti quei lavoratori che lì hanno trovato uno stipendio sicuro ma che, per forza di cose, dovranno presto trovare un’altra fonte di reddito. Guardare al problema del lavoro, nella specificità dei propri territori, con occhi nuovi diventa fondamentale. Valorizzando magari attività locali che risentano meno direttamente delle crisi del capitale generate dal capitale stesso. Anche in questo caso, dunque, è un cambiamento di predisposizione mentale e di prassi quotidiane che è necessario.

Il business degli inceneritori è legato a quello delle strade in quanto entrambi hanno a che fare, nel mio paese, con il cemento. Qualunque cosa accada io so che, se queste opere verranno realizzate, questo sarà a causa di una volontà politica, volta a rendere favori ai signori del cemento.