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Facendo ordine nel senso della scelta vegetariana

Reduce da un periodo di lavoro su e giù per la penisola, costretto (e non mio malgrado) a mangiare in giro per ristoranti, propenso alla ricerca di situazioni marginali e liminali, ho più volte riflettuto sul senso della mia scelta di non mangiare carne e di limitare fortemente il consumo di pesce.

Quello che ha innescato più volte il pensiero e la necessità di una ricapitolazione, a due anni dalla decisione, è stata la constatazione dell’omologazione delle offerte nella maggior parte delle trattorie alla buona che ho frequentato. Da nord a sud, in un certo tipo di ristoranti, l’offerta è praticamente identica. Mi riferisco in particolar modo al tipo di attività aperta a pranzo e cena, abbastanza economica, rivolta soprattutto ai lavoratori a mezzogiorno e senza troppe pretese la sera. Dalle tagliatelle al ragù alle patate al forno, mi è sembrato che l’Italia avesse un menù nazionale. Mi sono perciò chiesto quanto recente potesse essere questo appiattimento e in che misura potesse esser determinato dal mercato o semplicemente dalla distribuzione.

Rispondere alla prima domanda non è facile ma, intuitivamente, non credo l’Italia abbia sempre avuto piatti simili ovunque. E sono altresì sicuro che nel settore alimentare e, nello specifico, delle tipicità locali, oggi così in voga, ci siano realtà molto ben documentate sulle originalità delle ricette nei rispettivi luoghi e sugli itinerari della loro diffusione.

Riguardo la seconda questione c’è da ammettere che alcune ricette sono oggettivamente semplici e convenienti per un gestore. Detto questo però c’è da capire quanto la distribuzione può influire su alcune scelte, riguardo ad esempio la reperibilità dei prodotti. (Specifico qui che non credo che i suddetti menù, identici in tutta Italia, varino di stagione in stagione…)

Me lo domando perchè, da vegetariano, sono stato messo in difficoltà spesso davanti ai menù delle trattorie (odio i ristoranti a tema vegetariano e cose simili e, per motivi di lavoro, non avevo tempo di organizzarmi diversamente). Spesso ho ripiegato esclusivamente su un contorno, il che  ha voluto dire, sostanzialmente, scegliere tra patate arrosto, verdure grigliate o insalata. Eppure la carne non è (tutta) una merce economicamente conveniente e, nel caso di invenduto, credo sia un bell’onere per il titolare. Possibile che nessuno investa su prodotti meno cari, se non per convenienza? Forse la grande distribuzione non offre una gran varietà di verdure (credo sia chiaro che i gestori della maggior parte delle attività, per ora, non ha intenzione -per convenienza, ignavia o ottusità- di sbattersi alla ricerca di produttori locali). Forse semplicemente l’abitudine. Forse -sicuramente anche- la richiesta, frutto della cultura che vede la carne tra gli elementi principe della nostra alimentazione.

E’ molto complesso indagare  il motivo della centralità assunto dalla carne nella nostra dieta, ma è sicuramente interessante. E’ interessante perchè essa sembra, in tutti gli ambienti, al centro di una costante mistificazione, resa più forte dall’espansione della cultura vegetariana. Nel chiedermi se il prodotto si carichi di significati simbolici, tralasciandone gli aspetti psicologici che non mi interessano, ho riflettuto sul fatto che la carne sia relativamente da poco tempo un alimento di largo consumo. Suddetto passaggio infatti è avvenuto di pari passo con il miglioramento della qualità della vita delle classi meno abbienti, che prima dell’industrializzazione poche volte l’anno vedevano la carne.

La cucina è una scienza esatta, pare, ma le ricette no. E’ quindi naturale che, ad ogni esecuzione, il piatto che si va realizzando venga riletto e soprattutto aggioranato, aggiungendo, nel caso, ingredienti che prima non era possibile reperire. In tal caso l’esistenza di un mercato di grande distribuzione, che rende possibile il consumo quotidiano di ciò che prima non lo era, falsa inevitabilmente le carte in tavole.

Ad ogni modo ho deciso di mettere giù alcuni punti alla base della mia scelta.

– Gli allevamenti intensivi sono fonte di inquinamento

– Gli allevamenti intensivi sono causa di deforestazione

– Gli allevamenti intensivi richiedono grande assorbimento energetico

– Se le risorse agricole e le riserve d’acqua destinate agli allevamenti venissero risparmiate si potrebbe redistribuire in maniera più equa il cibo sul pianeta

– Non accetto che si possa concepire un animale come parte di un procedimento industriale

– Nella maggioranza dei casi sia durante la vita che nella macellazione la sofferenza degli animali non è considerata

– La questione sulla salubrità della carne è ancora dibattuta

– In ogni caso, se ne può fare a meno

 

N.B.

Per quanto riguarda il pesce, invece, ho deciso di eliminarlo quasi del tutto. Lo consumerò saltuariamente quando mi troverò in situazioni in cui potrò essere sicuro che non derivi da una grande distribuzione ma sia un prodotto locale. Ad ogni modo farò a meno di frutti di mare, tonno e  altri prodotti di largo consumo.

A caso su legalità e razzismo

Viene fuori un bel quadro, rappresentativo di alcune involuzioni della società, parlando degli avvenimenti di questi giorni. Mi piacerebbe partire dal seguente link, anche per dimostrare che non sono contrario alle istituzioni a prescindere. Pur con qualche dubbio, infatti, ho trovato in qualche modo importante questa dichiarazione di Marino:

Angelo Mai e famiglie sgomberate, chiesto il dissequestro degli edifici

In pratica un’azione della digos, su ordine della procura, scavalca l’amministrazione e butta in strada circa 70 nuclei familiari. A monte di tutto pare ci sia una denuncia. Non è il caso di perdersi dietro a capire chi sta dietro la denuncia, lo sappiamo benissimo e, pur senza prove, non ce ne stupiamo. Alcune forze retrive dello stato hanno sempre fatto conto su certe altre forze retrive esterne allo stato. Non è questo che ci interessa. Voglio solo rilevare come si sia arrivati ad avvallare azioni di marchio puramente polizesco/legalitario che scavalcano di fatto le autorità amministrative (politiche) con cui invece dovrebbero agire di concerto, quantomeno nella pianificazione delle conseguenze di un azione. Sgomberare occupazioni abitative senza concertarsi con il gabinetto del sindaco è illegale, ed è ragionevole che lo sia. Non spetta infatti alla polizia trovare rimedio alle conseguenze di uno sgombero. Un’azione violenta come l’esser buttati fuori casa (in via delle Acacie c’erano famiglie che vivevano lì anche da 4 anni) non può essere intrapresa senza un qualche piano di ammortizzazione, invece questa è la prassi anche nel caso di sgomberi concertati con l’amministrazione, figuriamoci negli altri casi. Spero quindi che vengano seriamente presi provvedimenti per quanto successo, ma ne dubito. Ne dubito principalmente perchè chi si è permesso di aggire come ha fatto lo ha fatto ben consapevole che oggi in italia la spinta legalitaria/manettara è forte e ben poche obiezioni vengono solitamente poste ad un intervento della magistratura. Ma vorrei indagare meglio il concetto di legalità.

L’acritica spinta verso l’ottenimento di giustizia è una delle tare più pesanti che ci hanno lasciato venti anni di governo berlusconi. L’uso del potere per fini così esplicitamente personali e il senso di frustrazione che ne è derivato ha creato due poli di reazione (grillini e piddini) accomunati dall’idealizzazione della legalità, non accompagnata da alcun senso critico e basata su una visione a-storica della legge stessa.

Questo fenomeno può prendere le pieghe più diverse. Abbondano infatti, ad esempio, nei vari social network gruppi che vanno in giro a denunciare illegalità scrivendo esplicitamente nomi e indirizzi o postando foto con volti e targhe di automobili, in presenza di fenomeni illegali. Il cittadino che, singolarmente, protetto dal suo scudo di senso civico, si erge a difensore del decoro e delle cause di buon senso, schierandosi con i tutori della legge, lo devo ammettere, mi sta sul cazzo di per sè. Ben più difficile è impegnarsi in associazioni, ad esempio, per risolvere un determinato problema. Ma la cosa veramente interessante da notare di questo fenomeno è il soggetto delle denunce: principalmente zingari, barboni, ambulanti, mendicanti, occupanti. Gli strati più bassi della società. Fa venire alla mente tutte le volte che mi è capitato di sentir parlare male degli zingari da parte di persone autodefinentesi di sinistra. A parte l’impossibilità di applicare la categoria “sinistra” a chi rivolge il suo sdegno agli strati più bassi della società, (mi dispiace, potete dire quello che volete: non siete di sinistra) verrebbe da concludere, in prima istanza, che anni di sfacciata illegalità di governo abbia portato le persone ad una sete di legalità in senso assoluto. Ma questo dato non può essere letto da solo.

La questione a mio avviso allarmante è il progressivo radicamento di tensioni e convinzioni razziste in persone apparentemente inconsapevoli. Prendersela con uno zingaro non sembra essere avvertito come razzismo, perchè ruba (di tutto, anche i bambini). Prendersela con un occupante neanche: non paga l’affitto. La dimensione della necessità è del tutto negata in favore di una dimensione di scelta del derelitto del proprio destino. Se sei rom (categoria) preferisci vivere in un campo piuttosto che in un appartamento. Se sei un occupante (categoria) preferisci svegliarti ogni mattina e sperare che non arrivino poliziotti in antisommossa a buttarti fuori di casa. Nel momento in cui si invoca un intervento della legge, d’altra parte, non ci si auspica un intervento sociale volto al cambiamento in meglio della situazione (altre spese per lo stato? pagando con i soldi delle mie tasse?). Daltronde che senso avrebbe: se tali categorie sono immutabili ogni sforzo per il cambiamento sociale è vano. Tutto questo non rappresenta una novità di per sè: rappresenta una novità da parte di persone sedicenti di sinistra. Non che mi sia mai interessato particolarmente quello che avviene all’interno del governo, ma in questo momento, oltre agli eredi di berlusconi (che di essere razzisti non fanno mistero) esso si divide in manettari/legalitari grillini e manettari/legalitari piddini. Gli uni credono che destra e sinistra non esistano più (cioè in pratica per loro gli strati bassi della società non esistono) gli altri credono che lo sgombero di un campo rom sia di sinistra.

pd rom

Peronalmente voglio precisare quella che ritengo una banalità: essere di sinistra avrà sempre senso finche il mondo sarà diviso in sfruttatori e sfruttati (con buona pace dei grillini). Essere contro un povero disgraziato non sarà mai di sinistra (con buona pace dei piddini).

In questo senso la legge diventa un valore assoluto, quando invece non lo è. Essa è un mezzo storico. Deve essere sottoposta ad analisi critica. Se così non fosse avremmo ancora le leggi romane. La legge stessa, inoltre, può correre il rischio di diventare un mezzo dell’agire politico: non tutto ciò che è legale deve per questo essere accettato. Quando ad esempio un ingiustizia trova la sua modalità di esecuzione nelle possibilità della legge che cosa succede? Saltando un po’ di palo in frasca nei vari movimenti di conflitto di questi giorni, ci possiamo spostare a Bologna, dove è in corso una mobilitazione contro le cooperative appaltanti lavori per grandi realtà. Abbiamo già parlato della granarolo. Ancora più recente è la manifestazione contro alcuni appalti dell’Unibo, ormai diventata in tutto e per tutto una delle aziende più potenti della città. Come spiega in maniera ineccepibile il video che segue, vi sono casi in cui un’ingiustizia può risultare del tutto legale.

Per questo motivo esiste la sinistra. Ma, aldilà della questione ideologica, rimane da affrontare un problema: come inquadrare il razzismo strisciante? Esso sembra essersi definitivamente spostato sulla questione economica e sull’emarginazione. Se ieri il problema erano gli stranieri, oggi sono gli stranieri che non hanno mezzi economici e che quindi arrivano in italia clandestinamente e finiscono magari in un lager. Se ieri davano fastidio i terroni, oggi sta più sul cazzo il barbone, che bivacca in strada. Quando rifletto su queste cose non posso non pensare ai numerosi progetti di speculazione di cui il partito di governo va facendosi portavoce: essi hanno come obiettivo quello della creazione di un mondo “cool”, di città vetrine, di turisti che fanno shopping e di un sacco di parole inglesi sparate a cazzo. In un ottica del genere è abbastanza chiaro che ci sono cose che danno fastidio alla vista: ad esempio gli emarginati. Rileggendo, in questi giorni, “NoLogo” di N. Klein (2000) mi ha impressionato la parte in cui descrive la politica di blair e del “new labour”. Trovo sia paradigmatico dell’ispirazione che ha portato al progetto pd. E il nostro attuale governatore è praticamente un blair italiano (più che un berlusconi 2.0). La politica del primo ministro inglese è stata quella di puntare tutto sull’immagine, di “marketingizzare” la politica. E a questo gioco il nostro si presta benissimo, avendo dalla sua imprenditori come farinetti, abili in comunicazione e che danno una spruzzata di sinistra al progetto. Nel momento in cui si costruisce Eataly, chi può accusarti di non essere di sinistra? Anche se per un maggior richiamo di turisti è necessaria qualche pulizia. In questo contesto il nostro attuale governatore sembra spaventare più dei precedenti: avendo alle spalle un nutrito gruppo di portatori di interesse nel voracizzare con le loro speculazioni i nostri territori, egli delinea la sua differenza con berlusconi principalmente per il configurarsi non tanto come un criminale, quanto come un’organizzazione criminale.

Non era mia intenzione parlare di governo (non lo faccio quasi mai e poco me ne importa). Sono finito a parlarne perchè trovo che esso sia inequivocabilmente legato al cambiamento sociale in atto, un cambiamento che, come abbiamo visto porta con sè razzismo verso i deboli e fiducia cieca nell’azione delle forze dell’ordine/magistratura. In effetti, se torniamo ad esempio a parlare dei fatti di Roma dell’altro ieri, risulta evidente il cortocircuito perverso tra un’azione polizesca che scavalca l’amministrazione e il clima politico, del tutto favorevole alle azioni polizesche come soluzione di un qualsivoglia problema. Il potere dato dalla politica alla polizia è aumentato perchè sempre di più le scelte politiche hanno e avranno bisogno della polizia per difendersi e affermarmarsi. Questo è noto. Ma vediamo che la polizia e la magistratura arrivano perfino al punto di scavalcare la politica. Se una cosa del genere accade è evidente che, chi ha preso la decisione, si sentiva autorizzato o quantomeno tutelato a farlo.

Per quanto riguarda invece i cittadini rimangono le considerazioni più amare. Se la spinta legalitaria può essere letta come reazione ad un’illegalità diffusa e palese, come si può giustificare questo mutamento di pelle del razzismo? Forse con la crisi e con la conseguente paura di impoverimento? Forse, all’inasprirsi delle condizioni, la società reagisce con un aumento di intolleranza verso le categorie a cui ci si sta avvicinando. O forse, semplicemente, il panorama culturale attuale è troppo povero per discorsi di solidarietà, che travalichino stereotipi consolidati.

Ancora e oltre la Fini-Giovanardi

Apprendo da quest’articolo che, nonostante la bocciatura della corte costizionale, la vita della legge infame Fini-Giovanardi non pare essere finita. Essendo imputabile tale bocciatura puramente ad un vizio di forma, il nostro ministro della salute ha infatti pensato bene di presentare un progetto di revisione delle tabelle che categorizzano le sostanze stupefacenti che riproponeva esattamente quello della legge in questione. Tale proposta è stata fortunatamente sconfessata in sede di consiglio dei ministri, con un ritorno di fatto alla configurazione precedente (quella disegnata da Craxi-Iervolino-Vassalli) la cui unica differenza consiste nell’inserimento della Cannabis e dei suoi derivati tra le sostanze cosiddette “leggere”. Questo rappresenta di fatto una scelta politica, non più una bocciatura giuridica. Ma stiamo comunque parlando semplicemente di un cambio di catalogazione riguardante una sostanza in particolare (tra l’altro enormemente diffusa e discussa).

In attesa quindi dell’emanazione del decreto legge (che dovrebbe concretizzarsi in circa due mesi) mi sembra il caso di spendere due parole sull’antiproibizionismo e sul cambiamento, culturale, che spero avvenga nel campo delle sostanze stupefacenti.

Mi preme innanzi tutto specificare che quello che è successo non è nulla più che un osso malridotto gettato in pasto ad un cane affamato. E come tale, pochi risultati potrà ottenere. In un periodo storico in cui quotidianamente si ha notizia di governi che scelgono la strada della tolleranza e del controllo, non mi sembra scelta di alcun coraggio quella di tornare a delle tabelle, oltretutto datate. Anche se il senso di colpa e la presenza dello stato nelle scelte personali stanno facendo sì che alcune esperienze legate al diritto e allo svago siano in discussione (Olanda), nuove forme di consumo nascono un po’ ovunque, come ad esempio quelle legate alla terapeuticità (USA). Insomma in tutto il mondo si cerca di porre fine alla guerra alle droghe, perlomeno leggere: non risulta quindi particolarmente coraggiosa la scelta del nostro governo di riconoscere che esistono delle droghe leggere…

Il governo stesso d’altra parte sembra non dare troppo peso a questa decisione, dato che la cosa è passata praticamente sotto silenzio. Dopo più di dieci anni in cui si sono distrutte le vite di una generazione di adolescenti il minimo che si potesse fare sarebbe stato intavolare una discussione pubblica riguardo la nuova legge in materia. Invece non se ne parla molto. Si aspetta, c’è da pensare, a voler essere maliziosi, che la cosa funzioni per poter accaparrarsene i meriti. Ma al di là di facili illazioni ci tengo a specificare il mio punto di vista riguardo le sostanze.

– Legalizzazione delle sostanze naturali e autoproduzione: non riconosco la possibilità di ritenere illegale una qualsiasi sostanza che si trovi comunemente in natura. L’utilizzo delle stesse deve e può essere controllato o regolamentato ma non ipocritamente impedito. Il punto rimane comunque l’uso (quindi la persona) non la sostanza. Posso usare un sasso per uccidere una persona, il problema sta nel mio gesto piuttosto che nel sasso. Essendo quello del consumo un gesto autoriferito non credo nella possibilità di un impedimento. Rimane più importante la libera scelta del singolo. L’autoproduzione tramite coltivazione diventerebbe in tal senso possibile e auspicabile. Possibile anche la vendita di materie di derivazione naturale, previa controllo e tassazione.

– Controllo delle sostanze sintetiche: Riconosco che potrebbe non valere lo stesso per tutte le sostanze, non essendo affatto chiaro, e per di più in continuo mutamento, il quadro delle sostanze chimiche. Questo vale sia per quelle realizzate in maniera del tutto sintetica che per i derivati sintetici di sostanze naturali. Le produzioni umane, in tal senso, si contraddistinguono, generalizzando, per una maggiore pericolosità se usate in maniera inconsapevole o irresponsabile. Credo comunque che la strada sia quella della non punibilità delle sostanze (quindi comunque legalizzazione). Ogni passo in una direzione diversa dalla legalizzazione infatti riproduce la relazione in cui qualcuno di potente (lo stato) toglie potere e possibilità di decisione a qualcuno di meno potente (il cittadino). Io non credo che nessun beneficio può derivare da un simile rapporto relazionale, per di più nel campo delle dipendenze, dove spesso la sfida più difficile da vincere risulta proprio essere la capacità del singolo di autodeterminarsi e scegliere. Questo ce lo ha insegnato, ad esempio, un’esperienza fondamentale come quella di don Gallo nella comunità di S. Bendetto al porto (Genova). Ritengo quindi possa essere benefico un controllo di una istituzione sanitaria nella produzione o nella distribuzione delle sostanze, accompagnata da una corretta informazione scientifica.

– Depenalizzazione: Come conseguenza delle due proposte precedenti ritengo che si debba togliere completamente dal contesto penale il soggetto che ha a che fare con le sostanze o anche con una dipendenza. Nel caso di un rapporto non problematico va da sè. Nel caso di rapporti problematici la questione deve passare dalla legge alla sanità. Mai più un tossicodipendente in carcere. Rimarrebbero così punibili solamente i produttori/distributori di sostanze sintetiche non controllate.

– Non-liberalizzazione: Non auspico un mercato libero delle droghe: ripeto, o autoproduzione/raccolta di sostanze naturali o acquisto/somministrazione di sostanze naturali e sintetiche da assumere previa controllo di un qualche ente/istituzione.

– Tassazione: Può non piacerci il governo, ma finchè questo esiste sarà un bene se ricava qualche soldo in più destinato altrimenti a finire nelle mani delle mafie e della criminalità. Naturalmente a patto di poter decidere noi come investire quei soldi: nella sanità, nel sociale, nello sforzo informativo scientifico riguardo le sostanze.

– Equiparazione dei psicofarmaci a sostanze sintetiche: In tutto il discorso precedente vale la totale equiparazione tra droghe fino ad ora di stato, riconosciute ed usate in ambito sanitario e droghe che sono state oggetto di caccia alle streghe. Non sono disposto a riconoscere queste differenze. Essendo l’uso delle sostanze una questione puramente di scelta personale rifiuto la possibilità di somministrazione forzata di una qualsiasi sostanza e, di conseguenza, non riconosco la validità di buona parte di quella che viene chiamata “psichiatria”.

Per chiudere mi auspico che il discorso sulle droghe venga una volta per tutte strappato alle mille ipocrisie e ai soliti ritornelli sulla sostanza Cannabis, per essere restituito interamente all’ambito a cui appartiene: quello del diritto e della scelta. E delle condizioni in cui tale scelta viene effettuata. Se ritengo dannosissima l’informazione errata o ideologica riguardo le sostanze, ritengo necessario invece riportare in ambito ideologico il problema dell’antiproibizionismo.

L’antiproibizionismo, mi pare, così come la psichiatria, si delinea tutto nella linea che tiene in relazione libertà e responsabilità. Ognuna delle quali non vale senza l’altra. Entrambe non tollerano imposizioni.

 

Un saluto a Francesco e una conferma

Ieri, 11 marzo, i movimenti hanno reso omaggio a Francesco Lorusso, nel giorno della ricorrenza della sua morte.

Anche a causa della vicinanza temporale con la notifica di “divieto di dimora” riguardante 12 attivisti bolognesi, i collettivi presenti hanno voluto ricordare l’accaduto e ribadire la continuità delle loro istanze col movimento del ’77, al quale si prova, maldestramente, a mettere un cappello conciliante. Erano infatti presenti, alla commemorazione presso la lapide di via Mascarella, figure istituzionali appartenenti alla stessa amministrazione e alla stessa area politica che lo scorso anno,  durante gli avvenimenti del 23 e 27 maggio a piazza Verdi, giustificarono l’intervento della polizia e condannarono l’azione degli studenti. Ma come si può rendere omaggio a Francesco Lorusso, militante di Lotta continua, ucciso con l’intento (riuscito) di spaccare e reprimere un movimento di piazza e contemporaneamente continuare a giustificare l’intervento della polizia quando gli studenti portano in pubblico le loro istanze? Non si può, ecco perchè i movimenti hanno deciso di mettere in chiaro una cosa:

Non c’è nessuna memoria condivisa.

Ciò che appartiene al conflitto, al conflitto resta.

Ho avuto modo di parlare della mia visione dei fatti riguardo le giornate dello scorso maggio, qui. Ed è per questo che voglio cogliere l’occasione per sottolineare l’assoluta tranquillità dello svolgersi del corteo di ieri. Come ho avuto modo di dire la gestione della piazza è stata, lo scorso anno, alla base di tutto ciò che ne è seguito. La lungimirante assenza, ieri, di forze del disordine ha  consentito lo svolgersi di una manifestazione determinata e pacifica.

La violenza sulle donne è una questione di classe

Scendere in piazza a manifestare può essere fatto in vari modi e ad ognuno di questi modi corrisponde una funzione (e un’idea) di quello che di solito chiamiamo “fare politica”.

Quando accanto ad un’idea che si vuol difendere o proporre si accosta una rivendicazione pratica e immediata si è, mi pare, più precisamente nel campo della politica. Quando invece si scende in piazza per manifestare un generico interesse o un altrettanto generico messaggio (pur se di buon senso) senza referenti ben precisi, senza proposte concrete, si sta facendo qualcos’altro. Il rischio, in questo secondo caso, è quello di creare dei momenti di unione civile (ad ogni modo auspicabili e benefici) che però siano in definitiva reazionari. Una volta lavate le coscienze non segue nessuna azione pratica. Ai responsabili dello stato delle cose fa anche comodo che si creino valvole di sfogo spontanee in grado di far sfogare la disapprovazione; considerato anche che una delle preoccupazioni della macchina nella costruzione del sistema è proprio la progettazione di tali valvole, funzionali allo status quo.

In pratica, un movimento che non crea conflitto fa parte del sistema stesso.

L’8 marzo, per la non-festa delle donne come ogni anno ci sono state varie iniziative, le quali, per l’appunto, possono essere inquadrate in maniera differente. Di chi ha deciso di vivere quell’iniziativa in maniera conflittuale ho già parlato qui.

Vorrei però spendere solo due parole per specificare che anche la questione della violenza sulle donne, come quella dell’aborto, sia una questione politica oltre che culturale. Lo credo perchè credo che educazione, cultura e società abbiano forte influenza sul problema, ma che la abbiano anche risorse economiche, classe sociale e condizionamenti diretti da parte della macchina. Ci si addentra in un percorso scivoloso in cui diventa difficile spesso distinguere cosa è “ambiente sociale” (delle relazioni, ad esempio) e cosa “condizionamento della macchina”. E però questa è un’operazione necessaria.

Rimane invece limpido il discorso riguardo i mezzi economici necessari alla completa indipendenza della persona vittima di violenza dal suo carnefice. Rimane limpida la questione di classe.

Quando sento parlare genericamente di “violenza sulle donne” (molto naif, chi mai potrebbe non dirsi contrario?) rispondo che questa è una delle tante battaglie volte a fare di tutt* esseri umani liberi e indipendenti, con una vita dignitosa, con casa, reddito e diritti. 

Sul significato di un 8 marzo di lotta

Il senso dell’operazione che sta alla base della non-festa 8 marzo, per come essa ci viene proposta oggi e per come viene vissuta, è più o meno il seguente: Dedicare a qualcosa una festa in maniera tale da sottindere che nei restanti giorni dell’anno essa non meriti attenzioni. Il solo gesto della dedica, poi,  mette il soggetto, destinatario del “bel gesto”, in posizione subalterna e, di conseguenza, privato non solo della dignità ma anche della capacità necessaria ad un’effettiva parità di ruoli. La questione dell’istituzione di un giorno come momento, più o meno, istituzionale per rivolgere le proprie attenzione “alle donne” va di pari passo con la visione dominante della donna come oggetto. Come oggetto… in pratica: una costola! L’evento 8 marzo è assolutamente parte del sistema che concepisce la donna come oggetto: è la sua leggittimazione a livello istituzionale. Perchè mai rivolgere a qualcosa le proprie attenzioni speciali se non perchè si ha consapevolezza di avere delle colpe verso quel qualcosa? Il giorno dell’8 marzo quindi, oltre ad essere una delle feste atte ad alimentare il consumismo, è ben di peggio: è la festa reazionaria in cui si celebra l’eterna sudditanza in cui si vuol tenere la donna. Il momento di celebrità che si concede ai succubi e che lava le coscienze degl’ignavi.

Il movimento femminista ha scelto di esprimersi in questa giornata così particolare per non lasciarla in mano alla retorica della macchina statale scegliendo come parola d’ordine #iodecido, mutuata da “yo decido”, slogan del movimento che si è creato in Spagna a seguito di una legge che ha, di fatto, vietato la libertà di scegliere l’aborto, riportando la nazione indietro di decenni. Il movimento italiano ha deciso, nella giornata di lotta appena trascorsa, di portare all’attenzione di tutti in primis i temi degli obbiettori di coscienza e della pillola del giorno dopo (da poco fortunatamente dichiarata contraccettiva e non più abortiva).

La scelta del movimento di esprimersi in questa giornata non va data per scontata: essa merita attenzione di per sè. Esprimersi nel giorno dedicato alle donne, ma che in effetti mortifica le donne con la sua stessa esistenza è, a mio parere, una maniera per strapparlo alla progaganda consumista e alle dinamiche di potere, per riempirlo dei contenuti che si vogliono portare all’attenzione di tutti, riguardo il corpo delle donne. Le iniziative dell’8 marzo dei movimenti non devono essere incastonate nell’ambito delle iniziative più generali dell’8 marzo: i cortei che in tutta Italia sono andati a far sentire la propria voce sotto gli ambulatori e davanti i consultori non sono una naturale sfaccettatura dell’evento. Sono una presa di posizione evidente e critica verso l’8 marzo stesso.

Vorrei fare qualche puntualizzazione verso la posizione femminista in merito alla questione dell’aborto.

Credo che il movimento femminista sia fondamentale, oggi più che mai, nel ribadire il percorso di emancipazione dagli stereotipi della macchina che la figura femminile deve affrontare. Sottrarre il corpo femminile all’uso oggettuale e mercantile che ne viene fatto è una battaglia credo (forse ingenuamente) per lo più culturale. L’uso che viene fatto del corpo femminile è indice di quanto sia fondamentale oggi una spinta femminista volta a strappare il concetto stesso di “femminile” alla macchina e restituirlo alla sua originale complessità e completezza.

La questione dell’aborto mi pare invece essere una questione non strettamente femminista e mi pare essere anche più direttamente politica che culturale. Proverò a spiegarmi meglio.

Credo che il corpo femminile sia sempre stato, e sia tutt’ora, uno dei territori di conquista del potere. Sin dal “mitico” passaggio da società matriarcale a società patriarcale, ma in questo non mi voglio addentrare perchè, effettivamente, di queste cose non ne so un cazzo. Quello di cui sono sicuro è invece che avere il controllo sul corpo della donna significa avere il controllo di un centro di potere. Controllare il corpo femminile e riuscire ad imporgli un determinato tipo di scelte vuol dire, in effetti, controllare per larga parte la società, l’economia e, a ben vedere, la politica. Vuol dire, ad esempio, controllare quello che lo stato borghese chiama famiglia. Vuol dire controllare l’andamento dei consumi. Vuol dire controllare i modelli che la macchina impone e che la società segue. Vuol dire controllare la libertà di agire (anche politicamente) del singolo. Per questo credo che quella per il diritto all’aborto sia una battaglia da non ascrivere mai al femminismo tout court, ma da portare avanti ad oltranza, come ad esempio la battaglia per il reddito o quella per la casa: perchè il corpo della donna è solo il luogo in cui si consuma fisicamente lo scontro ma in realtà le implicazioni della battaglia sono molto più vaste.

Ricordando sempre che sono le donne quelle più coinvolte emotivamente e quelle che poi subiscono in primis la situazione inaccettabile creata dalla presenza degli obbiettori nella sanità pubblica, dobbiamo manifestare e praticare in ogni modo possibile la solidarietà con quante di loro si troveranno nella condizione di ricorrere all’aborto. Dobbiamo però anche sempre tenere conto che in quella sede si sta giocando una guerra che vede schierati assieme stato e chiesa, che vogliono il controllo sociale, con quei medici che sanno benissimo che, per far carriera nella sanità italiana, bisogna obbiettare. Nella suddetta guerra, a latitare, è giustappunto solo la coscienza.

Credo dunque necessaria la richiesta che l’obiezione di coscienza venga impedita per legge.

L’8 marzo #iodecido

Domani in tutta Italia appuntamenti per l’8 marzo antagonista, all’insegna dell’#iodecido.

Qui una lista delle iniziative: http://womenareurope.wordpress.com/2014/03/03/8marzo-io-decido/

Per chi si trova a Bologna ben due appuntamenti, una manifestazione in piazza Maggiore ed un corteo da piazza di Porta Ravegnana.

Tutto ciò perchè sappiamo che c’è un campo in cui la presa dello stato non ha mai mollato il colpo: il corpo femminile.

Questo perchè esercitare controllo sul corpo femminile significa esercitare controllo sulla società tutta.

E quindi non un passo indietro nella battaglia contro gli abortisti cattolici, neanche per quanto riguarda gli obbiettori nei consultori o l’assurda e macabra richiesta di cimiteri per feti. Tutto ciò non deve passare, è solo un modo per instillare sensi di colpa cattolici nella testa delle donne e di tutti. Non passerà.

Azione e reazione: in solidarietà ai 12 militanti con “Divieto di dimora” a Bologna

Non tutti i tempi di reazione sono uguali. Quelli della burocrazia, ad esempio sono lenti ma inesorabili. Stamattina sono stati notificati 12 “Divieti di domora” (fogli di via) ad altrettanti militanti riguardo ai fatti di piazza Verdi del 23 e 27 Maggio 2013, quando gli attivisti hanno resistito attivamente alla polizia a cui era stato dato l’ordine di interrompere un assemblea in corso.

Immediata e puntuale è arrivata invece la nostra reazione di solidarietà con un presidio in prefettura, poi davanti al comune e, infine, con un corteo fino in piazza Verdi. Presenti oggi CUA, ASIA e TPO, i collettivi che hanno tra le loro fila compagni coinvolti.

Azione e reazione.

Il 23 Maggio 2013 la polizia cerca di interrompere un’assemblea indetta da CUA a cui partecipavano lavoratori e lavoratrici della ditta di pulizia Sodexo di Pisa, i quali rischiavano in quel periodo un licenziamento collettivo. La polizia interviene, l’assemblea si sposta e prende piazza Verdi, la polizia interviene di nuovo e fa arretrare i ragazzi, di nuovo, dove avevano iniziato: in via Zamboni, davanti la facoltà di Lettere. Motivazione ufficiale: assemblea non autorizzata. Tralasciando il sacrosanto diritto a portare in piazza problamatiche di questo tipo, anche analizzano la questione solo dal punto di vista dell’ordine pubblico, non ci vuole molto a capire quanto sia stata avventata l’azione della questura di Bologna che ha trasformato una semplice assemblea pubblica in questo:

Il 27 Maggio c’è stato il secondo round della contesa, la reazione, appunto. All’assemblea convocata 4 giorni dopo polizia e carabinieri in antisommossa cercano subito di impedire agli studenti l’ingresso in piazza. Motivazione: non devono usare amplificazione. Senza capire bene come si faccia a fare un assemblea all’aperto senza amplificazione gli studenti cercano, ancora una volta, di prendersi i propri spazi. E ancora una volta, quella che doveva essere un’assemblea, grazie ad una gestione della piazza disarmante, finisce così:

La reazione dello stato, anzichè essere immediata come quella quella dei colletivi, si è fatta attendere, ed è arrivata stamattina. 12 fogli di via. Per 12 militanti in collettivi come CUA, ASIA, TPO.

Le mie riflessioni a tutto questo non possono prescindere dal legarsi a quelle che sono le dinamiche che vedo in atto in piazza Verdi da anni. Da che la conosco io, almeno 10 anni. Lo so che il ragionamento che sto per fare potrebbe sembrare fuorviante, ma credo nella relazione e non nell’unicità dei fenomeni.

Un tale sconsiderato uso della polizia in una zona così delicata come piazza Verdi, in cui si incontrano e scontrano ogni giorno emergenze e quotidianità di ogni tipo, è l’unica risposta palese dell’amministrazione cittadina a chi chiede di intervenire su quello spazio, che non è solo spazio fisico, ma anche di relazioni.

Da anni il disagio di piazza Verdi è stato lasciato dilagare. I servizi per i ragazzi in difficoltà si sono diradati perchè il welfare non interessa più ai politici. Il cambiamento della società stessa, degli studenti stessi, nel tempo ha di fatto allargato la distanza tra chi frequenta piazza Verdi per l’Università e chi la frequenta e basta, creando quasi due circuiti separati. La frattura è sembrata ultimamente quasi insanabile, con l’allargarsi delle emergenze, l’imborghesimento degli studenti e la massificazione dei nuovi locali di via Petroni. Periodicamente viene operata una pulizia con intento solamente estetico, (rigorosamente dalle forze militari, non dai servizi sociali) e tutta la gente che dà fastidio alla vista per un po’ scompare, trascorre qualche giorno in carcere o in ospedale sotto regime di TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e poi torna, peggio di prima.

La scarsità di proposta culturale delle associazioni del territorio o, forse, il mancato interesse in tal senso del Comune fà si che quella che poteva essere una delle migliori armi per sconfiggere le emergenze della piazza, l’animazione cultrale, sia del tutto latitante, se non random d’estate quando Bologna và già svuotandosi.

In questo senso la politica che non affronta e nasconde i problemi sta preparando a trasformare piazza Verdi in una zona in cui il valore degl’immobili si possa moltiplicare, senza curarsi di risolvere le emergenze presenti, che tanto danno fastidio oggi ai proprietari. Ad esempio senza prendersi cura dei tossicodipendenti nè, tantomeno, attuare percorsi di integrazione per i migranti in maniera da strappare braccia allo spaccio.

E quindi la reazione dei movimenti: riprendiamocela questa benedetta piazza.

Oggi il corteo, nel suo piccolo, a portato in piazza Verdi, dove bivaccavano studenti, un nutrito gruppo di lavoratori stranieri, occupanti di case per necessità, lottatori determinati per i loro diritti, con famiglie e bambini al seguito. Se lo stato, il comune o chi per lui non ci dà la possibilità di vivere la piazza per creare momenti di aggregazione culturale, di incontro o semplicemente per fare un’assemblea, come volevano fare i ragazzi di CUA lo scorso 23 Maggio, noi lo facciamo lo stesso.

Perchè piazza Verdi è anche nostra.

Ma di più: perchè sappiamo che solo vivendo i nostri spazi in pubblico possiamo creare nuove e solidali reti sociali capaci di metterci in collegamento. Studenti, migranti, lavoratori precari, persone in qualche modo emarginate.

Ecco: alla luce di tutto questo risulta ancora più assurdo l’agire della questura in quei giorni di Maggio.

2 Marò e 4 NoTav: importanza e arbitrarietà del contesto

Il 22 febbraio c’è stata una giornata di mobilitazione nazionale notav. Il motivo è stato la richiesta di liberazione di 4 notav tuttora detenuti con la pesantissima accusa di terrorismo, a causa della quale alcuni di loro sono sottoposti a regime di alta sicurezza, in pratica isolamento. Possono passare fuori dalla cella solo 2 ore al giorno, mentre uno di loro, il più giovane, si trova in totale isolamento. Non possono vedersi tra di loro (tra l’altro sono stati delocalizzati in 3 carceri diverse). Qualsiasi messaggio di posta sia in entrata che in uscita è sottoposta e revisione e, eventualmnte, censura e per questo giunge comunque a destinazione con estrema lentezza. Ma cosa hanno fatto di preciso?

Nel caso, non confermato, in cui venissero riscontrati colpevoli (nel caso in cui… badate bene stiamo parlando di un’accusa) i 4 avrebbero tentato un’azione di sabotaggio al cantiere del tav di Chiomonte, tentativo nel quale è stato bruciato un compressore.

Il movimento notav, dichiaratamente contrario ad azioni di violenza contro uomini e donne, contro animali e che rechino danno alla natura, trova la forza di concepire, in qualche modo, al suo interno, che è possibile un’azione diretta contro il cantiere in questione. Che è leggittimato il sabotaggio. Sono processi mentali naturali nel momento in cui una popolazione finisce per non riconoscere più la sovranità dello stato nel suo territorio, a seguito di un uso e comportamento totalemente strumentale delle risorse, delle persone, ma anche delle aspirazioni e necessità stesse del territorio in questione da parte dello stato. Quando per un qualche calcolo nato al di fuori del territorio si decide di portare avanti un’idea come quella della Torino-Lione e si impone la stessa in maniera cieca a chi con quell’opera dovrà convivere, la reazione più naturale (nient’affatto auspicabile) è la creazione di una contrapposizione inconciliabile stato-cittadino. Il quale da quel momento giustificherà solo a sè stesso le proprie azioni.

Non ho intenzione di parlare in questa sede dell’assurdità dell’opera Torino-Lione, dell’inutilità, nè delle mire speculative che ci sono dietro. Voglio solo mettere in chiaro la posizione di frattura che in quel territorio lo stato italiano è riuscito a creare verso sè stesso, perchè quando un popolo perde ogni forma di sovranità e subisce la repressione delle proprie istanze comincia a vedersi come altro dallo stato. E si autoleggittima. O meglio: trova la forza per autoleggittimare le proprie azioni dirette. In questo contesto lo stato stesso giudica “terroristi” 4 ragazzi che hanno bruciato un compressore. Non per l’atto in sè (sarebbe ridicolo) ma per la palese frattura da sè stesso che testimoniano (danno di immagine agl’occhi dell’Europa, infatti, la motivazione).

In un periodo insomma in cui “ideologico” sembra esser divenuto un insulto (e ci tengo a dirlo: non lo è) viene fatta giustizia in maniera del tutto ideologica. A confermarlo in maniera del tutto sfacciata la vicenda dei Marò, di cui non è mia intenzione fare un riassunto (lo trovate qui). Mi basta rilevare che i due militari in questione sono accusati (sempre accusati, non condannati, come i 4 notav) dell’omicidio di due pescatori indiani.

Tralasciamo i particolari giuridici (visto che i due non sono mai passati per la giustizia italiana) consideriamo però le dichiarazioni di molti politici (non ultimo il neo-presidente del consiglio) e la maniera in cui il casò Enrica Lexie viene trattato dai media. E’ del tutto evidente che verso i due militari la macchina dello stato si muove in maniera sfacciatamente diversa. Se si brucia un compressore si è “terrorista” perchè si rovina l’immagine dell’Italia all’estero. Due omicidi che uccidono pescatori indiani disarmati invece sono “ragazzi da portare a casa”. Ci fanno fare una bella figura e ne dobbiamo essere orgogliosi.

D’altronde sono militari. E i pescatori erano due straccioni del terzo mondo. Quindi…

Vi lascio con la lettera dei genitori dei 4 notav in galera.

 

“In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni ’70 e ’80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?

Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata.

Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.

Questa lettera si rivolge:

Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trobino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.

Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista.

Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.

Grazie.”

 

Qualche pensiero sulla manifestazione meticcia di Bologna l’1 marzo

Questo primo marzo è stato un giorno dedicato ai diritti dei e delle migranti.

A Bologna, come in altre città, si è scesi in piazza per una giornata di lotta contro l’esistenza stessa di CIE e CARA, contro la legge Bossi-Fini e, più in generale, a favore della libera circolazione delle persone tra le nazioni e dei pieni diritti per tutti.

Il corteo si è svolto in maniera assolutamente pacifica tra il quartiere più meticcio di Bologna, la Bolognina, e piazza Maggiore, arrecando forse solo un po’ di inquietudine ai turisti, che in massa facevano la fila per vedere un’opera d’arte resa famosa da un film commerciale, quando hanno deciso di attaccare, sui poster che pubblicizzano la mostra, immagini delle condizioni dei reclusi nei CIE. In particolare immagini della protesta delle bocche cucite avvenuta nel CIE di Roma (Ponte Galeria) tra dicembre 2013 e gennaio 2014.

L’evento arriva in un periodo di fermento per vari avvenimenti che riguardano il diritto alla casa e al lavoro. Uguaglianza, casa e lavoro sono temi fondamentali nel campo dei diritti, del Diritto direi, se intendiamo il Diritto a vivere; e che in questi tempi siano sotto attacco la dice lunga sul periodo che stiamo attraversando.

– Per quanto riguarda il diritto alla casa Bologna è attraversata dalle stesse tensioni che attraversano tutta Italia e ho già parlato anche degli effetti benefici che questa nuova lotta avrà a mio avviso in termini di lotta al razzismo.

– Per quanto riguarda al lavoro si assiste ad un fenomeno molto simile e se vogliamo di portata maggiore o almeno, a prima vista, più maturo. Spero di aver modo di parlare presto del modo nuovo di stare fianco a fianco nelle lotte tra italiani e stranieri che si và esprimendo soprattutto nell’aria bolognese grazie ad esempio alla mobilitazione dei lavoratori della logistica ed in particolare al caso Granarolo.

In questo clima in cui forze ed esigenze diverse cominciano ad esprimersi assieme per trovare una direzione comune, Bologna chiama un corteo per stare affianco a chi vuole essere discriminato perchè non rispondente alle logiche burocratiche del potere. Il meticciato resistente che si và creando, l’ho detto e lo ripeterò ancora, è una delle cose più benefiche che ci potessero capitare.

“La nostra europa non ha confini” sarà alla fine, a mio avviso, lo slogan del corteo. Volendo si può sostituire “Europa” con “Mondo” ecc… e via dicendo perdendosi in speculazioni inutili.

Riguardo le questioni poste dal corteo quella più scottante riguarda l’esistenza stessa di lager legali. A proposito dei lager CIE bisogna semplicemente dire che essi sono dei carceri in cui esseri umani vengono reclusi senza che abbiano commesso nessun reato e soltanto perchè provengono da un’altra nazione. Bisogna ricordare che le persone che vi si trovano vengono lasciate nel più totale squallore e spesso e volentieri maltrattate, torturate e sedate con psicofarmaci da professionisti della psichiatria compiacenti. Bisogna anche far sapere che società private spesso lucrano accaparrandosi gli appalti per la gestione di questi centri ma garantendo un servizio che risulterebbe scarso anche per la gestione di un canile. Bisogna ribadire che non si può in nessun caso contenere e improgionare un essere umano arbitrariamente e non transigere anche su un altro fatto: che il “reato di clandestinità” non esiste. A proposito dei lager CARA si possono dire esattamente le stesse cose con l’aggravante che tali trattamenti sono riservati a persone richiedenti asilo.

L’unica differenza tra questi lager e quelli nazisti è che nei nostri non vengono commessi omicidi. In compenso il livello dei suicidi è comunque notevole.

Ebbene, nessuno di noi vorrebbe sentirsi condannare come noi ci sentiamo liberi di fare verso quelle persone che rimasero indifferenti ai lager durante la seconda guerra mondiale. E se venissimo a sapere di qualcuno che ha tentato a suo tempo di distruggerne uno, di far evadere i suoi prigioneri, non esiteremmo a definirlo un eroe: questo sono le istituzioni stesse ad insegnarcelo attraverso la scuola, attraverso il giorno della memoria e in molti altri modi come film e libri. Dovranno allora essere le stesse istituzioni a riconoscere che deve essere leggittimo qualsiasi atto (che non comprenda la violenza su persone e animali) volto ad abbattere e distruggere questi luoghi per restituire libertà a chi vi è capitato.