Facendo ordine nel senso della scelta vegetariana

Reduce da un periodo di lavoro su e giù per la penisola, costretto (e non mio malgrado) a mangiare in giro per ristoranti, propenso alla ricerca di situazioni marginali e liminali, ho più volte riflettuto sul senso della mia scelta di non mangiare carne e di limitare fortemente il consumo di pesce.

Quello che ha innescato più volte il pensiero e la necessità di una ricapitolazione, a due anni dalla decisione, è stata la constatazione dell’omologazione delle offerte nella maggior parte delle trattorie alla buona che ho frequentato. Da nord a sud, in un certo tipo di ristoranti, l’offerta è praticamente identica. Mi riferisco in particolar modo al tipo di attività aperta a pranzo e cena, abbastanza economica, rivolta soprattutto ai lavoratori a mezzogiorno e senza troppe pretese la sera. Dalle tagliatelle al ragù alle patate al forno, mi è sembrato che l’Italia avesse un menù nazionale. Mi sono perciò chiesto quanto recente potesse essere questo appiattimento e in che misura potesse esser determinato dal mercato o semplicemente dalla distribuzione.

Rispondere alla prima domanda non è facile ma, intuitivamente, non credo l’Italia abbia sempre avuto piatti simili ovunque. E sono altresì sicuro che nel settore alimentare e, nello specifico, delle tipicità locali, oggi così in voga, ci siano realtà molto ben documentate sulle originalità delle ricette nei rispettivi luoghi e sugli itinerari della loro diffusione.

Riguardo la seconda questione c’è da ammettere che alcune ricette sono oggettivamente semplici e convenienti per un gestore. Detto questo però c’è da capire quanto la distribuzione può influire su alcune scelte, riguardo ad esempio la reperibilità dei prodotti. (Specifico qui che non credo che i suddetti menù, identici in tutta Italia, varino di stagione in stagione…)

Me lo domando perchè, da vegetariano, sono stato messo in difficoltà spesso davanti ai menù delle trattorie (odio i ristoranti a tema vegetariano e cose simili e, per motivi di lavoro, non avevo tempo di organizzarmi diversamente). Spesso ho ripiegato esclusivamente su un contorno, il che  ha voluto dire, sostanzialmente, scegliere tra patate arrosto, verdure grigliate o insalata. Eppure la carne non è (tutta) una merce economicamente conveniente e, nel caso di invenduto, credo sia un bell’onere per il titolare. Possibile che nessuno investa su prodotti meno cari, se non per convenienza? Forse la grande distribuzione non offre una gran varietà di verdure (credo sia chiaro che i gestori della maggior parte delle attività, per ora, non ha intenzione -per convenienza, ignavia o ottusità- di sbattersi alla ricerca di produttori locali). Forse semplicemente l’abitudine. Forse -sicuramente anche- la richiesta, frutto della cultura che vede la carne tra gli elementi principe della nostra alimentazione.

E’ molto complesso indagare  il motivo della centralità assunto dalla carne nella nostra dieta, ma è sicuramente interessante. E’ interessante perchè essa sembra, in tutti gli ambienti, al centro di una costante mistificazione, resa più forte dall’espansione della cultura vegetariana. Nel chiedermi se il prodotto si carichi di significati simbolici, tralasciandone gli aspetti psicologici che non mi interessano, ho riflettuto sul fatto che la carne sia relativamente da poco tempo un alimento di largo consumo. Suddetto passaggio infatti è avvenuto di pari passo con il miglioramento della qualità della vita delle classi meno abbienti, che prima dell’industrializzazione poche volte l’anno vedevano la carne.

La cucina è una scienza esatta, pare, ma le ricette no. E’ quindi naturale che, ad ogni esecuzione, il piatto che si va realizzando venga riletto e soprattutto aggioranato, aggiungendo, nel caso, ingredienti che prima non era possibile reperire. In tal caso l’esistenza di un mercato di grande distribuzione, che rende possibile il consumo quotidiano di ciò che prima non lo era, falsa inevitabilmente le carte in tavole.

Ad ogni modo ho deciso di mettere giù alcuni punti alla base della mia scelta.

– Gli allevamenti intensivi sono fonte di inquinamento

– Gli allevamenti intensivi sono causa di deforestazione

– Gli allevamenti intensivi richiedono grande assorbimento energetico

– Se le risorse agricole e le riserve d’acqua destinate agli allevamenti venissero risparmiate si potrebbe redistribuire in maniera più equa il cibo sul pianeta

– Non accetto che si possa concepire un animale come parte di un procedimento industriale

– Nella maggioranza dei casi sia durante la vita che nella macellazione la sofferenza degli animali non è considerata

– La questione sulla salubrità della carne è ancora dibattuta

– In ogni caso, se ne può fare a meno

 

N.B.

Per quanto riguarda il pesce, invece, ho deciso di eliminarlo quasi del tutto. Lo consumerò saltuariamente quando mi troverò in situazioni in cui potrò essere sicuro che non derivi da una grande distribuzione ma sia un prodotto locale. Ad ogni modo farò a meno di frutti di mare, tonno e  altri prodotti di largo consumo.