2 Marò e 4 NoTav: importanza e arbitrarietà del contesto

Il 22 febbraio c’è stata una giornata di mobilitazione nazionale notav. Il motivo è stato la richiesta di liberazione di 4 notav tuttora detenuti con la pesantissima accusa di terrorismo, a causa della quale alcuni di loro sono sottoposti a regime di alta sicurezza, in pratica isolamento. Possono passare fuori dalla cella solo 2 ore al giorno, mentre uno di loro, il più giovane, si trova in totale isolamento. Non possono vedersi tra di loro (tra l’altro sono stati delocalizzati in 3 carceri diverse). Qualsiasi messaggio di posta sia in entrata che in uscita è sottoposta e revisione e, eventualmnte, censura e per questo giunge comunque a destinazione con estrema lentezza. Ma cosa hanno fatto di preciso?

Nel caso, non confermato, in cui venissero riscontrati colpevoli (nel caso in cui… badate bene stiamo parlando di un’accusa) i 4 avrebbero tentato un’azione di sabotaggio al cantiere del tav di Chiomonte, tentativo nel quale è stato bruciato un compressore.

Il movimento notav, dichiaratamente contrario ad azioni di violenza contro uomini e donne, contro animali e che rechino danno alla natura, trova la forza di concepire, in qualche modo, al suo interno, che è possibile un’azione diretta contro il cantiere in questione. Che è leggittimato il sabotaggio. Sono processi mentali naturali nel momento in cui una popolazione finisce per non riconoscere più la sovranità dello stato nel suo territorio, a seguito di un uso e comportamento totalemente strumentale delle risorse, delle persone, ma anche delle aspirazioni e necessità stesse del territorio in questione da parte dello stato. Quando per un qualche calcolo nato al di fuori del territorio si decide di portare avanti un’idea come quella della Torino-Lione e si impone la stessa in maniera cieca a chi con quell’opera dovrà convivere, la reazione più naturale (nient’affatto auspicabile) è la creazione di una contrapposizione inconciliabile stato-cittadino. Il quale da quel momento giustificherà solo a sè stesso le proprie azioni.

Non ho intenzione di parlare in questa sede dell’assurdità dell’opera Torino-Lione, dell’inutilità, nè delle mire speculative che ci sono dietro. Voglio solo mettere in chiaro la posizione di frattura che in quel territorio lo stato italiano è riuscito a creare verso sè stesso, perchè quando un popolo perde ogni forma di sovranità e subisce la repressione delle proprie istanze comincia a vedersi come altro dallo stato. E si autoleggittima. O meglio: trova la forza per autoleggittimare le proprie azioni dirette. In questo contesto lo stato stesso giudica “terroristi” 4 ragazzi che hanno bruciato un compressore. Non per l’atto in sè (sarebbe ridicolo) ma per la palese frattura da sè stesso che testimoniano (danno di immagine agl’occhi dell’Europa, infatti, la motivazione).

In un periodo insomma in cui “ideologico” sembra esser divenuto un insulto (e ci tengo a dirlo: non lo è) viene fatta giustizia in maniera del tutto ideologica. A confermarlo in maniera del tutto sfacciata la vicenda dei Marò, di cui non è mia intenzione fare un riassunto (lo trovate qui). Mi basta rilevare che i due militari in questione sono accusati (sempre accusati, non condannati, come i 4 notav) dell’omicidio di due pescatori indiani.

Tralasciamo i particolari giuridici (visto che i due non sono mai passati per la giustizia italiana) consideriamo però le dichiarazioni di molti politici (non ultimo il neo-presidente del consiglio) e la maniera in cui il casò Enrica Lexie viene trattato dai media. E’ del tutto evidente che verso i due militari la macchina dello stato si muove in maniera sfacciatamente diversa. Se si brucia un compressore si è “terrorista” perchè si rovina l’immagine dell’Italia all’estero. Due omicidi che uccidono pescatori indiani disarmati invece sono “ragazzi da portare a casa”. Ci fanno fare una bella figura e ne dobbiamo essere orgogliosi.

D’altronde sono militari. E i pescatori erano due straccioni del terzo mondo. Quindi…

Vi lascio con la lettera dei genitori dei 4 notav in galera.

 

“In queste settimane avete sentito parlare di loro. Sono le persone arrestate il 9 dicembre con l’accusa, tutta da dimostrare, di aver assaltato il cantiere Tav di Chiomonte. In quell’assalto è stato danneggiato un compressore, non c’è stato un solo ferito. Ma l’accusa è di terrorismo perché “in quel contesto” e con le loro azioni presunte “avrebbero potuto” creare panico nella popolazione e un grave danno al Paese. Quale? Un danno d’immagine. Ripetiamo: d’immagine. L’accusa si basa sulla potenzialità di quei comportamenti, ma non esistendo nel nostro ordinamento il reato di terrorismo colposo, l’imputazione è quella di terrorismo vero e volontario. Quello, per intenderci, a cui la memoria di tutti corre spontanea: le stragi degli anni ’70 e ’80, le bombe sui treni e nelle piazze e, di recente, in aeroporti, metropolitane, grattacieli. Il terrorismo contro persone ignare e inconsapevoli, che uccideva, che, appunto, terrorizzava l’intera popolazione. Al contrario i nostri figli, fratelli, sorelle hanno sempre avuto rispetto della vita degli altri. Sono persone generose, hanno idee, vogliono un mondo migliore e lottano per averlo. Si sono battuti contro ogni forma di razzismo, denunciando gli orrori nei Cie, per cui oggi ci si indigna, prima ancora che li scoprissero organi di stampa e opinione pubblica. Hanno creato spazi e momenti di confronto. Hanno scelto di difendere la vita di un territorio, non di terrorizzarne la popolazione. Tutti i valsusini ve lo diranno, come stanno continuando a fare attraverso i loro siti. E’ forse questa la popolazione che sarebbe terrorizzata? E può un compressore incendiato creare un grave danno al Paese?

Le persone arrestate stanno pagando lo scotto di un Paese in crisi di credibilità. Ed ecco allora che diventano all’improvviso terroristi per danno d’immagine con le stesse pene, pesantissime, di chi ha ucciso, di chi voleva uccidere. E’ un passaggio inaccettabile in una democrazia. Se vincesse questa tesi, da domani, chiunque contesterà una scelta fatta dall’alto potrebbe essere accusato delle stesse cose perché, in teoria, potrebbe mettere in cattiva luce il Paese, potrebbe essere accusato di provocare, potenzialmente, un danno d’immagine. E’ la libertà di tutti che è in pericolo. E non è una libertà da dare per scontata.

Per il reato di terrorismo non sono previsti gli arresti domiciliari ma la detenzione in regime di alta sicurezza che comporta l’isolamento, due ore d’aria al giorno, quattro ore di colloqui al mese. Le lettere tutte controllate, inviate alla procura, protocollate, arrivano a loro e a noi con estrema lentezza, oppure non arrivano affatto. Ora sono stati trasferiti in un altro carcere di Alta Sorveglianza, lontano dalla loro città di origine. Una distanza che li separa ancora di più dagli affetti delle loro famiglie e dei loro cari, con ulteriori incomprensibili vessazioni come la sospensione dei colloqui, il divieto di incontro e in alcuni casi l’isolamento totale. Tutto questo prima ancora di un processo, perché sono “pericolosi” grazie a un’interpretazione giudiziaria che non trova riscontro nei fatti.

Questa lettera si rivolge:

Ai giornali, alle Tv, ai mass media, perché recuperino il loro compito di informare, perché valutino tutti gli aspetti, perché trobino il coraggio di indignarsi di fronte al paradosso di una persona che rischia una condanna durissima non per aver trucidato qualcuno ma perché, secondo l’accusa, avrebbe danneggiato una macchina o sarebbe stato presente quando è stato fatto.

Agli intellettuali, perché facciano sentire la loro voce. Perché agiscano prima che il nostro Paese diventi un posto invivibile in cui chi si oppone, chi pensa che una grande opera debba servire ai cittadini e non a racimolare qualche spicciolo dall’Ue, sia considerato una ricchezza e non un terrorista.

Alla società intera e in particolare alle famiglie come le nostre che stanno crescendo con grande preoccupazione e fatica i propri figli in questo Paese, insegnando loro a non voltare lo sguardo, a restare vicini a chi è nel giusto e ha bisogno di noi.

Grazie.”