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Pensieri su Genova 2001

In questi giorni, a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, c’è un vociare ininterrotto su quello che è stato o non è stato il G8 di Genova 2001. Pochi ricordano il movimento che a quel G8 ha portato.

Nel 2001 si era in pieno fermento. C’era stato Seattle, c’era stato Porto Alegre e tutti avevano letto NoLogo. Il movimento No Global, o altermondialista, era un fenomeno forte, diffuso, consapevole e capillare. Dai licei fino alle punte più estreme dei professionisti e degli intellettuali si diffondevano idee ben precise di “un altro mondo possibile” da costruire.

Poi c’è stata Genova. Piazza Alimonda. La Diaz. Bolzaneto.

Per anni il movimento si è sfaldato. Diviso. Impaurito. Ognuno ha preso la sua strada. Ogni collettivo ha fatto la sua battaglia, cercando per lo più di non scomparire. Per riprendere il filo del discorso c’è voluto molto tempo e la crescente forza e determinazione dei movimenti contro le grandi opere, di lotta per la casa, per i diritti dei migranti… In larga parte, c’è voluta la crisi.

Scrivo questo articolo per mettere in chiaro un semplice concetto: a Genova c’è stata una responsabilità politica ben precisa, e parlare di Genova senza sottolinearlo è reazionario.

Ho letto una quantità di articoli disgustosi su Genova in questi giorni, ma quelli che mi hanno dato più fastidio non sono stati quelli palesemente fascisti dei paladini della polizia, ma quelli ipocriti e reazionari dei sedicenti democratici indignati con le “mele marce” della Diaz. Ho anche assistito ad una trasmissione televisiva in cui si condannava la vergogna degli avanzamenti di carriera dei responsabili di polizia all’epoca delle operazioni del G8, il tutto senza un accenno alla copertura che quelle azioni ha, quantomeno, permesso.

Io credo che questa sia ipocrisia.

Lungi da me difendere l’operato della polizia. La “macelleria messicana” non è definizione di noi compagni, ma che i poliziotti si siano comportanti in maniera schifosa è risaputo dal 22 Luglio 2001. Accusare adesso chi coordinò quelle azioni è, ripeto, ipocrita, e serve al sistema per un comodo scaricabarile, a distanza di 14 anni.

La Diaz e Bolzaneto, dove si è torturato senza pietà, sono stati atti premeditati della politica per mettere fine al movimento No Global e, in quanto tali, hanno avuto successo. Senza un’indagine sulle responsabilità politiche (italiane e non) non si va da nessuna parte, la ferità rimarrà aperta e gli intellettuali da prima serata non faranno altro che infettarla con discorsi devianti. Il problema della polizia italiana non consiste in “poche mele marce”: si tratta di una pianta velenosa in toto in quanto strumentale all’agire politico. Che poi la situazione sia aggravata dalla presenza al suo interno di fanatici della violenza è altro discorso.

Come buona pratica, termino col link di Supporto Legale: attraverso il sito si può donare per sostenere le spese legali di chi ha subito direttamente la repressione dello stato.

Gentrificazione, azione e reazione: il progetto Staveco, Bologna.

Il Comune e l’Università di Bologna hanno recentemente ufficializzato l’accordo per la realizzazione di Campus 1088, ovvero il progetto Staveco, un’area di 93.000 mq da trasformare in un centro universitario, sul modello, appunto, dei campus americani.

Dopo il recente intervento relativo al Lazzaretto e le relative ombre, Unibo ci riprova. L’area in questione si trova appena fuori i viali del centro storico ed è una zona che nel corso del tempo è stata adibita a varie funzioni di tipo militare, oggi abbandonata. A progetto concluso, nei piani di Unibo, nel campus troveranno casa i dipartimenti di alcune facoltà che al momento hanno sedi frammentate e sparse nel territorio bolognese (come ad esempio Informatica ed Economia) ma anche alcuni dipartimenti che hanno già una sede unitaria e ben funzionante e che verranno semplicemente spostati, vedremo più avanti perchè (ad esempio il DAMS). Inoltre il campus dovrebbe contenere anche biblioteche, mense, uno studentato, un’area commerciale (ebbene sì, pubblicizzata come “commercio in strutture di vicinato e artigianato di servizio” difficilmente proporrà beni economici), un Faculty Club (strutture ricettive per studenti, anche in questo caso di alto profilo, se guardiamo agli esempi delle Università internazionali a cui ci si ispira), impianti sportivi e un immancabile parcheggio (4oo posti). Dei 93.000 mq totali dell’area circa 42.000 dovrebbero essere edificati. Il che, a onor del vero, non è molto dissimile dalla conformazione attuale dell’area, che pure versa in stato di abbandono, e non dovrebbe quindi, restando così le cose, dar adito a proteste per questioni legate alla cementificazione. Dovrebbe però far sorgere qualche dubbio la constatazione che, per ottenere questi 42.000 mq, l’Unibo sta svendendo palazzi per un totale di… circa 40.000 mq. Nulla di strano in generale, dato che una riorganizzazione dell’assetto universitario potrebbe essere una cosa positiva, soprattutto per quelle facoltà, come accennato prima, frammentate nel tessuto urbano, senza una sede centrale. Ma quando si parla di svendita di patrimonio pubblico (in tempo di crisi non si può genericamente parlare di dismissione) bisogna andare con calma ed analizzare le cose da vicino.

L’opera in totale costerà circa 100 milioni di Euro e c’è già la presa di posizione di chi rivendica la necessità piuttosto di un investimento volto ad abbassare i costi per gli studenti. Il comune ha fatto la sua parte mettendo a disposizione l’area e rinunciando alla percentuale di profitto che gli sarebbe spettata, ma il grosso dei finanziamenti necessariamente arriverà dalla vendita dei palazzi storici che l’Università possiede in tutta la regione. E’ per questo motivo che la gestazione di Staveco è stata più lunga di quanto inizialmente prospettato, ma alla fine l’accordo con l’Agenzia del Demanio è stato raggiunto e anche il Ministero delle Economie e delle Finanze ha approvato il piano finanziaro di Unibo, che prevede la dismissione di 9 immobili, tra cui alcuni palazzi storici e due ville. Tra questi palazzo Malveggi-Campeggi, sito di pregio collocato in via Zamboni, sede storica di Giurisprudenza, Facoltà dalla sede tutt’altro che frammentata. Palazzo Marescotti-Brazzetti, via Barberia, immobile storico dagli affreschi e dai particolari archittettonici di indubbio valore artistico, in passato sede del PCI Bolognese e, da poco più di 5 anni, sede del DAMS, ancora fresca di una lunga e costosa ristrutturazione che l’ha reso uno dei dipartimenti più nuovi ed efficienti dell’Università di Bologna. Villa Guidalotti ad Ozzano dell’Emilia, palazzo cinquecentesco dai soffitti affrescati, il cui stato di inutilizzo non giustifica in alcun modo la svendita, soprattutto vista la possibilità che si è avuta nel corso del tempo di un suo impiego, ad esempio nell’ambito dell’Agraria e Veterinaria, problema a cui si è preferito rispondere come al solito col cemento, con la costruzione di un polo universitario al Pilastro (via Fanin). Villa Levi a Reggio Emilia, datata 1600 e più volte nel corso dei secoli oggetto di lavori, porta in sé i segni di almeno 4 correnti storiche e artistiche, l’ultima delle quali è il Liberty novecentesco delle sue decorazioni interne. Specifico per correttezza che altri palazzi, tra quelli messi in vendita, non hanno tale importanza storica e architettonica, ma quelli finora elencati mi sembrano abbastanza per una qualche riflessione.

Impossibile non mettere in discussione l’idea stessa di svendere (a chi? e cosa diventeranno?) palazzi storici del patrimonio pubblico per costruire un polo universitario che, con tutta la buona volontà, difficilmente avrà pregi archittettonici. Il patrimonio pubblico così perso non potrà essere recuperato. Se la crisi, causata dal capitalismo finanziario, è la responsabile che ha messo le istituzioni italiane nella condizione di svendere il proprio patrimonio e di dover creare sempre nuove speculazioni per sopravviere, è anche palese che gli unici a trarne profitto saranno quegli stessi speculatori che l’hanno causata e che riusciranno a mettere le mani sui suddetti palazzi storici a prezzi di saldo.

Se riguardo il nuovo progetto non ci sono, mi pare, particolari che facciano gridare allo scandalo, bisogna invece rivolgere uno sguardo preoccupato all’idea di città che traspare da tale scelta, da parte dell’amministrazione comunale. Infatti, anche se è stata abbandonata l’idea di trasferire in massa le Facoltà nell’area di Staveco, in funzione della creazione di un più aleatorio “polo dell’eccellenza” “ad alta vocazione internazionale” è chiaro che il dato appetibile ai fini elettorali per la giunta è quello del “decongestionamento del Centro Storico”. La città di Bologna senza i suoi studenti risulterebbe un enorme contenitore vuoto e, passatemi l’espressione, privo di senso. La più antica Università occidentale (1088, appunto, l’anno di nascita) ha infatti consentito a Bologna di distinguersi dalle sue anonime sorelle emiliane e, attualmente, porta 80.000 studenti l’anno in dote alla città trasformandola in uno dei centri più vivaci culturalmente (e ricchi) d’Italia. Unibo è, per numeri ed importanza, “la prima impresa dell’Emilia-Romagna”. Svuotare il centro storico, ripulirlo, riempirlo di costosi negozi per lo shopping e l’aperitivo, adibirlo a vetrina per turisti risolve sicuramente qualche grattacapo all’amministrazione. Ad esempio quelli legati all’ordine pubblico ed al decoro. Ma, in un’immagine, allontana dalle strade di Bologna la vita quotidiana, costituita dall’incontro tra gli studenti ed i commercianti del luogo.

La creazione di un campus inoltre rappresenterebbe una brusca rottura nelle abitudini aggregative degli studenti, perchè questo sposterebbe il baricentro delle giornate degli studenti, allontanandoli dal centro. Questo produrrà verosimilmente un ripiegamento nel privato e, per chi può permetterselo, nelle modalità di aggregazione a pagamento e, contemporaneamente, un’allontanamento dall’attuale Zona Universitaria (piazza Verdi, via Zamboni). Tale passaggio se non mediato e meditato costituirà un peggioramento della qualità della vita degli studenti, sempre più isolati e lasciati in mano all’imprenditoria immobiliare privata e al business dell’intrattenimento, sempre più incapaci di coltivare modalità di socialità e condivisione gratuita.

Allo stesso tempo, la Zona Universitaria, sempre sull’onda del ciclone per questioni legate all’ordine pubblico, cambierà lentamente pelle e vedrà sempre meno studenti. Come ho già avuto modo di dire qui, uno degli aspetti più preoccupanti delle trasformazioni in atto nella zona in questione è lo scollamento progressivo tra studenti e altri avventori di piazza Verdi. Ricordo che solo 10 anni fa c’era una tangibile vicinanza e continuità. Oggi, con gli studenti sempre più borghesi ed alienati da un uso massiccio di nuove tecnologie, ragazzi di strada e migranti vengono sempre meno a contatto con la vita studentesca, aumentando il loro grado di estraniamento e ingrassando le fila del disagio sociale. Da molto tempo si insiste col dire, da più parti e basandosi su esperimenti riusciti, che le emergenze sociali si combattono con l’inclusione, con la vicinanza solidale, con le operazioni culturali attive nei luoghi critici e, per tutta risposta, quello che si è avuto dall’amministrazione, è stata una continua e sterile militarizzione della zona in questione. Ora si cercano di togliere gli studenti di mezzo. Così sarà probabilmente poi più facile allontanare i senza dimora e passare una mano di bianco, senza risolvere veramente granchè. Cancellare così modalità relazionali gratuite e trasversali dovrebbe essere tabù in una città che in passato ha fatto vanto dei propri servizi sociali, oggi ridotti al lumicino.

Va inoltre anche messa a fuoco la questione del campus in sé per sé. Il concetto appartiene infatti alla cultura scolastica americana e, come ribadito anche dal sindaco, si tratta di un progetto “senza precedenti in Italia”. La cultura del campus infatti, dove gli studenti vivono tutti assieme, isolati dal resto della società, non trova riscontro nella nostra cultura, dove le città nascono nel tessuto urbano, mescolate con le botteghe degli artigiani e dei commercianti, a stretto contatto con la vita del luogo. Il territorio americano, con i suoi spazi enormi, le sue città recenti e prive di centro storico, la sua cultura nuova e iper-specializzata ben si offre alla modalità del campus. Ma da noi questa non trova riscontro e suona anche piuttosto stonata in un periodo in cui la retorica del mainstream è ben attenta a esaltare solo ciò che è tipico, locale e che appartiene alla propria storia e cultura. Ma senza andare tanto in là vorrei sottolineare la perdita culturale implicita nella scelta di togliere le migliaia di nuovi studenti che arrivano ogni anno a Bologna dal contatto diretto e quotidiano col tessuto cittadino. Perdita, beninteso, reciproca.

Gli studenti sono da sempre parte attiva nella vita e nelle vicende cittadine. Se l’afflusso in massa in città ha difatti trasformato il volto cittadino e ha causato un vertiginoso aumento dei costi della vita in alcune zone, è pure vero che questo ha determinato la ricchezza di alcune fasce sociali. Sugli studenti è stata fatta, in alcuni ambiti, una speculazione senza mezzi termini che ha determinato, ad esempio, l’innalzamento del costo degli affitti e dei beni nella zona universitaria. A questa è conseguito un cambiamento nel genere di attività commerciali presenti, con la comparsa di locali sempre più costosi ed esclusivi. Ora, perchè il processo di gentrificazione sia completo, bisogna togliere dalla strada tutti quei soggetti che reclamano lo spazio universitario cittadino come un diritto gratuito e non come un luogo commerciale, a cominciare dagli studenti.

Nel corso degli ultimi dieci anni si è combattuta una vera e propria battaglia mediatica (leggi: campagna elettorale) da parte dell’amministrazione, volta a creare un’emergenza degrado in grado di far leva sulla sensibilità più grossolana dei residenti (che votano) da contrapporre alla presenza fastidiosa degli studenti (che non votano). Problema questo al quale la giunta si prepara a dare un’eccellente risposta, grazie a Staveco. Eppure non posso che rilevare come l’emergenza degrado sia in realtà un fenomeno fittizio creato ad hoc nelle menti delle persone da una vergognosa ed asservita stampa locale ed alimentato coscienziosamente con lo svuotamento dei contenuti e delle attività culturali, con la desertificazione dei servizi sociali, con ordinanze repressive che svuotano la zona dai presidi commerciali creando di fatto i presupposti per la situazione che contemporaneamente si va condannando. Non posso inoltre non rilevare che il cambiamento di atteggiamento degli studenti, preoccupati solo di consumare (che si tratti di alcool o di vestiti) e incuranti della città, corrisponde al cambiamento di mentalità di una generazione cresciuta con i vuoti messaggi televisivi.

Il disagio sociale che si manifesta nelle strade della Zona Universitaria deve, a mio avviso, essere incanalato in forme culturali attraverso attività collettive, tenendo sempre a mente la storia artistica di Bologna, dal ’77 ad oggi, che proprio ad esso deve alcune delle sue esperienze più significative.

 

Per un dossier su Staveco: http://hobo-bologna.info/2015/01/30/inchiesta-staveco/

Nota: Le parti virgolettate sono prese dagli articoli citati nei link.

Cultura di serie A e cultura di serie B: i Teatri Nazionali

Il 1 Luglio 2014 è stato firmato un Decreto di Riforma del D.L. 163 del 30 Aprile 1985 che regola l’assegnazione del F.U.S., il Fondo Unico per lo Spettacolo, le sovvenzioni ministeriali. Tale riforma è stata voluta dall’allora Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray (governo Letta) e confermata dall’attuale Ministro, Dario Franceschini.

Qui il testo della Riforma.

Nello specifico delle attività del Teatro di Prosa il cambiamento principale consiste nell’abolizione dei Teatri Stabili e nell’Introduzione di una nuova classificazione: Teatri Nazionali, Teatri di Rilevante Interesse Culturale e poi altre categorie come Centri di Produzione e Teatri Regionali. Per capire cosa cambierà bisogna fare una brevissima presentazione riguardo quello che erano i Teatri Stabili.

Gli Stabili sono nati sotto la spinta teaorica e pratica di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che concretizzarono i loro sforzi nella fondazione del Piccolo di Milano, nel 1947. I loro sfrorzi teorici insistevano decisamente nel ruolo civile del teatro visto come “strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società”. Il concetto di “servizio pubblico” che l’istituzione della stabilità doveva garantire era il fulcro centrale di questa visione. Gli stabili sarebbero serviti, e di fatto così è stato, a far circuitare in Italia le produzioni teatrali creando scambi tra le più importanti realtà produttrici ma, soprattutto, portando le nuove creazioni anche nei più piccoli paesini. La funzione degli stabili nell’allargare la fruizione culturale, dalla città al paese, dall’alta alla piccola borghesia è stata fondamentale, in quanto, per accedere al F.U.S. stanziato dal Ministero, bisognava garantire un certo numero di repliche fuori dalla propria sede, di cui una parte sostanziale fuori regione.

Dal 23 Febbraio 2015 è stata resa nota la nuova geografia degli enti che andranno a spartirsi il F.U.S., cancellando gli Stabili. Si tratterà di 7 Teatri Nazionali (Milano, Torino, Roma, Emilia Romagna, Toscana, Veneto)  e di 3 Teatri di Rilevante Interesse Culturale (Palermo, Catania, Genova). Tutti gli altri centri saranno “relegati” a Centro di Produzione o a Teatro Regionale.

Saltano all’occhio alcuni aspetti positivi di tale riforma come ad esempio il carattere triennale del finanziamento che permetterà una maggiore capacità di pianificazione.

Altro aspetto positivo potrebbe riguardare il vincolo per un direttore artistico di rimanere in carica tra i 3 e i 5 anni: questa mancanza, infatti, ha rappresentato una delle cause principali di “stagnazione artistica” delle produzioni teatrali italiani, dalla fine delle avanguardie in poi. Senonchè tale indicazione nel testo di legge riporta la possibilità di una riconferma a fine mandato, cosa che presumibilmente comprometterà tale vincolo. Colgo l’occasione per ricordare che quella delle “turnazioni” delle cariche direttive è una delle battaglie importanti e esplicitamente rivendicate da realtà di spicco come ad esempio il Teatro Valle Occupato di Roma.

Altro aspetto potenzialmente positivo potrebbe essere quello dell’introduzione di un numero minimo di produzioni di teatro di ricerca per anno, cosa che, però, nell’astrazione più totale del concetto di “teatro di ricerca” risulta ridicola.

Venendo agli aspetti invece decisamente negativi vi è, in sostanza, quello della volontà di creare un circuito di serie A e uno di serie B, perchè questo è evidentemente un sistema economicamente vantaggioso, in barba allo spirito che aveva animato le intenzioni dei teorici degli Stabili.

Infatti i Teatri Nazionali dovranno rappresentare il 70% delle repliche delle loro produzioni in sede (addirittura il 50% di questo 70 nella sala principale e non in quelle minori) ed avranno il vincolo di non portare più del 20% degli spettacoli fuori regione.

Tale riforma è stata fatta passare, nel dibattito, come un tentativo di “europeizzare” il giro teatrale italiano favorendo gli scambi con l’estero, ma di questo nella riforma non c’è traccia, se non nella possibilità di coprodurre senza limite spettacoli con enti internazionali (per le coproduzioni nazionali c’è un limite.

Detto questo risulta palese che il primo effetto di tale riforma consisterà nella creazione di poli di produzione teatrali nelle grandi città, che porteranno fuori poco di ciò che producono e, quando lo faranno, sarà verosimilmente all’estero o in altri Teatri Nazionali e praticamente nulla nei piccoli paesi.

D’altra parte, tutti quegli enti che diverrano piccoli Centri di Produzione e Teatri Regionali non avranno budget sufficiente per acquistare spettacoli da grosse realtà produttive e difficilmente riusciranno a portare le loro creazioni in grosse piazze (con l’eccezione di qualche eccellenza) venendo relegate così alla circuitazione regionale e allo scambio con altri centri secondari fuori regione.

Il tutto alla faccia dello spettatore del paesino di provincia e in barba agli slanci civili di Strehler e Grassi

Riguardo l’Industria dello Spettacolo – (la logica del debutto)

11 Dicembre 2011: A seguito di un incidente durante il montaggio del palco per il concerto di Lorenzo Cherubini a Trieste muore Francesco Pinna, 20 anni, facchino.

4 Marzo 2012: A seguito di un incidente durante il montaggio del palco per il concerto di Laura Pausini a Reggio Calabria muore Matteo Armellini, 31 anni, rigger.

Dopo qualche settimana di dibattito d’occasione l’interesse attorno alle vicende legate al mondo del live si è spento, e nulla pare cambiato. Per capire quello che intendo dire non serve essere del settore e neanche assistere ad un concerto: basta saper leggere il calendario di un tour, dal sito di un artista a caso. Anche se molte case di produzione hanno rarefatto le date, quando un artista si esibisce per un giorno solo in una location l’intero spettacolo viene montato a partire dalla mattina e smontato la notte, dopo lo show. Ci sono naturalmente eccezioni, ma questa rimane la regola nelle produzioni che, per dimensioni, lo consentono. Senza contare i casi in cui si debbano sostenere più show in giorni consecuti ed in città diverse, anche un solo giorno di lavoro a condizioni del genere vuol dire lavorare circa 14-16 ore.

La questione della “logica del debutto” è, a mio avviso, una questione aperta tanto quanto connaturata, nel pensiero corrente, al mestiere dell’operaio dello spettacolo. Sempre avvallata nel corso del tempo, dai lavoratori, dai datori di lavoro e dai sindacati.

I primi non mancano, ogni volta che possono, di farsi male da soli. Ed è così che, mescolata alla vanità dello status di “lavoratore dello show business”, si è insediata nella categoria una competitività basata sul machismo che rende di fatto impossibile un discorso sindacale/solidaristico.

I secondi, è evidente hanno tutto il vantaggio a massimizzare le ore di lavoro al giorno e nessun interesse ad ingaggiare, eventualmente, doppie squadre per uno stesso lavoro. La concentrazione di più date in pochi giorni, inoltre, è una delle caratteristiche che rende redditizio un tour, il quale, ricordiamolo, da dopo Napster, rappresenta una fonte di reddito fondamentale per le produzioni musicali.

Dai terzi è inutile aspettarsi qualcosa di buono se, come si può vedere qui, hanno fallito anche la recente occasione per sfruttare lo strumento del Contratto Collettivo Nazionale. In quest’ultimo Contratto, infatti, come accade da molto tempo, sono dettati dei tempi massimi di lavoro settimanali da rispettare (40 ore) ma vi viene specificato che a contare è la media annuale degli stessi. Questo non pone di fatto alcun vincolo a situazioni logoranti e potenzialmente pericolose, anzi ne facilita lo sviluppo fornendo ai datori di lavoro l’escamotage per giustificarli. Nessun accenno inoltre viene fatto riguardo ai casi di più date in giorni consecutivi in location diverse, il che, quando si parla di un lavoro che si svolge prevalentemente in tourneé, equivale ad evitare volutamente un argomento scottante.

Del nuovo CCNL (valido per i lavoratori associati ad una Coop; siamo in attesa del rinnovo di quello relativo agli scritturati per il teatro di prosa) se ne è già parlato qui. Ma a parte questo, non si levano molte voci, anche dall’interno, contro la “logica del debutto”.

A suscitare la voglia di scrivere queste righe, a me, che lavoro nel campo da pochi anni, è stata la costatazione che anche le produzioni teatrali di personalità televisive, diciamo, “intellettuali” o “impegnate civicamente” vengono fatte circuitare secondo la stessa logica. Giornalisti, scrittori, opinionisti, che, avendo scoperto il live come modo di arrotondare e promuovere i loro scritti, imbastiscono spettacoli semplici nella scenotecnica (quindi poca spesa, pochi operai e tecnici impiegati nella realizzazione) che girano di città in città non fermandosi praticamente mai più di un giorno. La curiosità riguarda dunque il sapere se questi non riescono a rendersi conto dell’industria che muovono e delle condizioni lavorative che genera, magari assorbiti dalle loro questioni “alte” o se ne siano ben consci e le accettino come facenti parte del loro stesso sistema. Un discorso per il miglioramento della società, come ogni discorso “impegnato” dovrebbe essere, può essere portato avanti tramite un carrozzone fatto girare da operai che lavorano 14 ore al giorno?

Cito personaggi del mondo intellettuale per poter così calare un velo pietoso sulle personalità della musica pop. A questi infatti, semmai dovessi porre una domanda chiederei: vi siete mai accorti che quando suonate un giorno a Milano e, il giorno dopo, a Roma, il palco e tutta la macchina gigantesca che lo sovrasta è la stessa? Da persone intelligenti (?) non è mai sorto in voi il dubbio che questo comporti tempi e condizioni di lavoro degne di biasimo? Non credete che, al di là delle vuote e retoriche parole che vengono fuori a cazzo quando capita una tragedia, debba essere messa in discussione la “logica del debutto”?

A questa domanda non arriverà probabilmente una risposta. Quindi, anzichè attendere invano, invito tutti a rileggere la lettera degli amici di Matteo Armellini alla Pausini:

“Signora Pausini,
apprendiamo dai giornali del “dramma” che l’ha colpita e della sua intenzione di dedicare a Matteo i suoi prossimi concerti.
Ognuno ha diritto ad esprimere il proprio lutto nelle forme che ritiene più opportune, ma aver letto le sue dichiarazioni, riportate persino sui giornali di gossip, non può non farci pensare che Lei, Matteo, non sapeva chi fosse. Certamente non è così che chi l’ha veramente conosciuto avrebbe scelto di ricordarlo.

Ci rendiamo conto che i meccanismi dello show business, di fronte ad una tragedia di questo genere, impongono di assumere un contegno simile di fronte ai media. Ma è proprio a causa dell’ambiguità di questo cordoglio che sarebbe opportuno che Lei evitasse di farsi portavoce di un dolore che non le appartiene. Forse dovremmo arrenderci ai meccanismi pubblicitari e lasciare che la strumentalizzazione mediatica ci scivoli addosso.

Ma non possiamo farlo, non possiamo perché vogliamo e dobbiamo rispettare il nostro dolore e quella che sarebbe stata la volontà del nostro amico.
Le chiediamo pertanto pubblicamente di astenersi dal dedicare a Matteo i suoi concerti, di non nominarlo, di lasciare il dolore a una dimensione privata.

Al di là degli aspetti penali, che competono alla magistratura, ciò che non emerge di questa tragedia è il grave problema che riguarda il lavoro. Lo show business, per massimizzare il profitto a ogni costo, impone ritmi frenetici e condizioni di lavoro aberranti a una categoria già di per sé frazionata e debole, il tutto per garantire sempre allo spettacolo di andare avanti.
Lei scrive nella sua lettera che si sente impotente, che non può fare niente per cambiare le cose; allo stesso tempo, Jovanotti invita a una riflessione su come migliorare il livello di sicurezza, senza che però alle parole seguano dei fatti concreti.

Noi al contrario riteniamo che Lei, come tutte le Star dello spettacolo, abbiate il potere e il dovere morale di cambiare qualcosa, per far sì che tutto quello che è accaduto non si ripeta. Gli artisti sono gli unici che possono permettersi di dire no.
Questo sarebbe un aiuto concreto e una dimostrazione di sostegno per quella che Lei chiama “famiglia in tour”, ed eliminerebbe il dubbio che da questa tragedia derivi solo pubblicità per il suo personaggio.

E’ il rispetto del silenzio che chiediamo.

Gli amici di Matteo