Verso il Primo Maggio: su migrazioni e sindacalismo

Siamo di nuovo alle porte del Primo Maggio e colgo l’occasione per fare qualche semplice parallelismo che ho in testa da un po’.

La celebrazione del Primo Maggio dovrebbe ricordare gli eventi del 1886 quando a Chicago la polizia sparò per ben due volte contro un corteo che manifestava per ragioni sindacali. A seguito di tali manifestazioni inoltre, l’anno successivo, 12 tra organizzatori e partecipanti agli scioperi vennero impiccati.

E’ chiaro che tutto ciò verrà tenuto come ogni anno lontano dalle retoriche che accompagnano l’evento a livello istituzionale. Il mondo del lavoro versa in una condizione melmosa e non per caso: la crisi stessa non basta a giustificare lo stato delle cose. La deregolamentazione (o nuova regolamentazione) che ci ha portato (parlo del caso italiano) nella merda in cui ci troviamo oggi, è cominciata molto prima. Tanto per ricordare un unico e significativo evento, la legge 30/2003 ha trovato, dopo la tragica morte di Biagi, pressoché nessuna opposizione. Ha preso anche il nome dal suo autore originale, nonostante sia poi in larga parte completata da altre menti “eccezionali”. L’opposizione ad una legge, che di fatto ha aperto le porte della precarietà in Italia, è stata perciò delegittimata alla radice, in quanto facilmente accostabile al gesto violento che ha posto fine alla vita del suo autore, in un clima di irrazionalità nazionale che mi lascia tutt’oggi perplesso, constatando quali sono le conseguenze (e dove i vantaggi) dell’omicidio.

La schifezza in atto nel mondo del lavoro in Italia trova legittimazione anche in altri processi. Nell’anno passato abbiamo assistito all’incidente della fabbrica di Prato in cui hanno perso la vita 7 lavoratori cinesi. Ebbene, personalmente, non credo affatto sia un caso che situazioni come quella dei lavoratori stranieri in condizioni che esulano ogni norma, passino sempre inosservate. In Italia (ma ovunque in Occidente) viene tollerata (voltandosi dall’altra parte) la presenza di industrie che impiegano lavoratori costretti ad una condizione sindacale/salariale inferiore alla media nazionale, perché la sola presenza di queste realtà rende la classe lavoratrice facilmente ricattabile. Essi stanno difatti lì a ricordare, a quanti hanno voglia di battersi per i propri diritti, che ci sono eserciti interi di lavoratori di ogni parte del mondo che mandano avanti sistemi di produzione a condizioni sindacali inferiori che non aspettano altro che l’occasione per entrare nel sistema produttivo italiano.

D’altra parte la de-localizzazione degli stabilimenti occidentali in zone del mondo con standard sindacali inferiori rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia. Il capitale esporta le sue aziende senza, naturalmente, garantire ai nuovi impiegati le condizioni sindacali dei vecchi.

Credo che i due problemi abbiamo due soluzioni, di difficile realizzazione, entrambe di vocazione internazionalista. Nel caso dei lavoratori stranieri in Italia infatti la sfida dei movimenti di lotta sindacale sta nell’attirare al proprio interno gli stranieri, magari che vivono una situazione di emarginazione, per aprire anche nelle loro coscienze la prospettiva di un miglioramento nel lavoro.

Il caso invece della de-localizzazione degli stabilimenti di produzione rende chiara la necessità di rafforzare le relazioni sindacali internazionali e l’esportazione di modelli sindacali stessi.