Credo che la televisione vada eliminata.
Ho deciso quindi di creare un elenco, per forza di cose non definitivo e in aggiornamento, delle motivazioni più rilevanti che dovrebbero portare all’abolizione del mezzo televisivo.
– E’ un mezzo univoco. Presupporrebbe quindi una gestione partecipata ed orizzontale, al momento al di fuori dell’orizzonte delle possibilità.
– Annulla la costruzione dialettica. A causa della caratteristica di cui sopra e del tipo di contenuto veicolato indebolisce, in alcuni casi annulla, la capacità di costruzione di dialogo in maniera dialettica. Esprime, nei contenitori dedicati, una forma di dialogo non costruttivo e non basato sull’ascolto ma sulla prevaricazione. In parole povere in televisione si fa più ascoltare chi più è in grado di alzare la voce e catturare l’attenzione, non chi argomenta meglio.
– Azzera lo spirito critico. La continua proposta di produzioni culturali di bassissima caratura porta ad un abbassamento medio del livello di acculturazione. Uno degli argomenti principali dei sostenitori dell’utilità televisiva è quello che la televisione ha contribuito ad “alfabetizzare”. Verissimo. Possiamo dunque usare questo argomento per rilevare che per produrre un cambiamento sociale positivo il mezzo debba trasmettere contenuti di livello culturale superiore alla media. Invece, al momento, la prospettiva sembra essere cambiata e, con l’argomento della produzione accessibile a tutti, la qualità dei programmi veicolati è crollata. Ciò non solo non produce cambiamenti positivi: ne produce di negativi in quanto i soggetti che fruiscono tali programmi non saranno in grado di fare paragoni in merito al valore di un dato prodotto culturale.
– Afferma un’idea sminuente dell’essere umano-telespettarore. Proprio perchè a questo si rivolge in maniera bassa senza stimolare alcuna sensibilità intellettuale, implicitamente veicola il messaggio che il ricevente non sia ingrado di decifrare codici di maggiore difficoltà.
– Impone modelli estetici. Non solo attraverso la pubblicità ma anche attraverso i programmi trasmessi, la continua diretta veicolazione di contenuto porta con se una continua veicolazione di standard di vario tipo. Come ad esempio concetti, visioni del mondo, messaggi e, naturalmente, canoni estetici. L’imposizione come standard di un modello estetico (sia esso riferito alla corporeità che all’accessorietà) è causa di frustrazioni e fragilità poichè ogni campo di competitività lo è. La fragilità e l’insicurezza sono fattori che disincentivano la coesione sociale.
– Crea bisogni artificiali. Questi agiscono come i modelli estetici di cui sopra, dividendo la società. I bisogni vengono veicolati, come i canoni estetici, attraverso la ripetuta trasmissione di messaggi. Questa imposizione del discorso attraverso una posizione univoca della comunicazione fa si che “i messaggi” diventino “il messaggio” ovvero che prevalga, nel discorso comune, il minimo comun denominatore di tutte le trasmissioni: ciò verrà percepito come necessario.
– Genera paure. All’imposizione di un canone o alla creazione di un bisogno corrisponde la paura di non riuscire ad adeguarvisi/soddisfarlo. Questa paura è il motore prediletto del capitalismo in quanto la prima risposta a questo sentimento di disagio passa attraverso l’acquisto di un suppletivo alla propria posizione.
– Falsa la scala delle necessità. Attraverso la proposizione di valori dubbi veicola in modo discutibile la tensione dell’individuo nelle sue azioni.
– Divide la società. Spirito di competizione artificiale, paure, incapacità dialettica sono fattori ai quali si vanno ad aggiungere i casi di narrazioni falsate volte alla discriminazione di un gruppo particolare (vedi ad esempio le figure del Rom e del migrante nel discorso televisivo italiano). Tutto questo frammmenta la società in frange diverse per classe, religione, etnia, credo politico, locazione geografica (ecc…) incapaci di interazione positiva o esplicitamente ostili.
– Raggira la coscienza di classe. Una conseguenza tra le peggiori dell’imposizione di modelli discutibili dal punto di vista dello status sociale è la definizione di modelli culturali fondati sulla ricchezza materiale. In tempi di crisi, in cui le masse dei nuovi proletari (cioè coloro che non possiedono nulla se non la loro forza lavoro) sono sempre più povere, l’ambizione all’adesione ad un canone improntato sulla ricchezza porta i giovani a rinnegare la propria realtà e a imitare il comportamento delle classi superiori. La negazione della propria classe di appartenenza, in favore di un imitazione della classe a cui si dovrebbero strappare dei diritti, nega la lotta di classe, storicamente mezzo di emancipazione sociale. Stabilendo di fatto uno stato di cose reazionario.
– Restituisce una prospettiva parziale della realtà che rappresenta. Finché la televisione non sarà partecipata, non riuscirà ad essere molteplice. Di conseguenza la creazione di situazioni privilegiate per la veicolazione delle proprie visioni del mondo è giocoforza pericolosa per la natura plurale della società.
Stabiliti questi punti si pongono alcune questioni:
– Come portare avanti una lotta con l’obiettivo dichiarato di porre fine alla televisione.
– Come veicolare i propri contenuti culturali nella loro pienezza. Dopo anni e anni di comunicazione volutamente degradata e tritata nelle sue complessità comunicare a tutti un messaggio culturale alto (attraverso qualsiasi mezzo, anche al di fuori del mezzo televisivo) si presenta come un’impresa difficile. La sfide consiste nel trovare un modo per renderlo comprensibile e soprattutto appetibile a tutti senza per questo volutamente sminuirlo.
– Come ricostruire la capacità dialogica. Questo diventa importante soprattutto in virtù dell’uso del social network e della rete che in generale ci si sta dispiegando davanti. Una sfida, ad esempio, consiste nell’affrontare dibattiti online senza cadere nella tentazione di ricalcare schemi imposti dalla televisione, secondo i quali è fruttuoso sostituire alle argomentazioni ragionate espedienti metalinguistici e prevaricazioni nella discussione.