Il senso dell’operazione che sta alla base della non-festa 8 marzo, per come essa ci viene proposta oggi e per come viene vissuta, è più o meno il seguente: Dedicare a qualcosa una festa in maniera tale da sottindere che nei restanti giorni dell’anno essa non meriti attenzioni. Il solo gesto della dedica, poi, mette il soggetto, destinatario del “bel gesto”, in posizione subalterna e, di conseguenza, privato non solo della dignità ma anche della capacità necessaria ad un’effettiva parità di ruoli. La questione dell’istituzione di un giorno come momento, più o meno, istituzionale per rivolgere le proprie attenzione “alle donne” va di pari passo con la visione dominante della donna come oggetto. Come oggetto… in pratica: una costola! L’evento 8 marzo è assolutamente parte del sistema che concepisce la donna come oggetto: è la sua leggittimazione a livello istituzionale. Perchè mai rivolgere a qualcosa le proprie attenzioni speciali se non perchè si ha consapevolezza di avere delle colpe verso quel qualcosa? Il giorno dell’8 marzo quindi, oltre ad essere una delle feste atte ad alimentare il consumismo, è ben di peggio: è la festa reazionaria in cui si celebra l’eterna sudditanza in cui si vuol tenere la donna. Il momento di celebrità che si concede ai succubi e che lava le coscienze degl’ignavi.
Il movimento femminista ha scelto di esprimersi in questa giornata così particolare per non lasciarla in mano alla retorica della macchina statale scegliendo come parola d’ordine #iodecido, mutuata da “yo decido”, slogan del movimento che si è creato in Spagna a seguito di una legge che ha, di fatto, vietato la libertà di scegliere l’aborto, riportando la nazione indietro di decenni. Il movimento italiano ha deciso, nella giornata di lotta appena trascorsa, di portare all’attenzione di tutti in primis i temi degli obbiettori di coscienza e della pillola del giorno dopo (da poco fortunatamente dichiarata contraccettiva e non più abortiva).
La scelta del movimento di esprimersi in questa giornata non va data per scontata: essa merita attenzione di per sè. Esprimersi nel giorno dedicato alle donne, ma che in effetti mortifica le donne con la sua stessa esistenza è, a mio parere, una maniera per strapparlo alla progaganda consumista e alle dinamiche di potere, per riempirlo dei contenuti che si vogliono portare all’attenzione di tutti, riguardo il corpo delle donne. Le iniziative dell’8 marzo dei movimenti non devono essere incastonate nell’ambito delle iniziative più generali dell’8 marzo: i cortei che in tutta Italia sono andati a far sentire la propria voce sotto gli ambulatori e davanti i consultori non sono una naturale sfaccettatura dell’evento. Sono una presa di posizione evidente e critica verso l’8 marzo stesso.
Vorrei fare qualche puntualizzazione verso la posizione femminista in merito alla questione dell’aborto.
Credo che il movimento femminista sia fondamentale, oggi più che mai, nel ribadire il percorso di emancipazione dagli stereotipi della macchina che la figura femminile deve affrontare. Sottrarre il corpo femminile all’uso oggettuale e mercantile che ne viene fatto è una battaglia credo (forse ingenuamente) per lo più culturale. L’uso che viene fatto del corpo femminile è indice di quanto sia fondamentale oggi una spinta femminista volta a strappare il concetto stesso di “femminile” alla macchina e restituirlo alla sua originale complessità e completezza.
La questione dell’aborto mi pare invece essere una questione non strettamente femminista e mi pare essere anche più direttamente politica che culturale. Proverò a spiegarmi meglio.
Credo che il corpo femminile sia sempre stato, e sia tutt’ora, uno dei territori di conquista del potere. Sin dal “mitico” passaggio da società matriarcale a società patriarcale, ma in questo non mi voglio addentrare perchè, effettivamente, di queste cose non ne so un cazzo. Quello di cui sono sicuro è invece che avere il controllo sul corpo della donna significa avere il controllo di un centro di potere. Controllare il corpo femminile e riuscire ad imporgli un determinato tipo di scelte vuol dire, in effetti, controllare per larga parte la società, l’economia e, a ben vedere, la politica. Vuol dire, ad esempio, controllare quello che lo stato borghese chiama famiglia. Vuol dire controllare l’andamento dei consumi. Vuol dire controllare i modelli che la macchina impone e che la società segue. Vuol dire controllare la libertà di agire (anche politicamente) del singolo. Per questo credo che quella per il diritto all’aborto sia una battaglia da non ascrivere mai al femminismo tout court, ma da portare avanti ad oltranza, come ad esempio la battaglia per il reddito o quella per la casa: perchè il corpo della donna è solo il luogo in cui si consuma fisicamente lo scontro ma in realtà le implicazioni della battaglia sono molto più vaste.
Ricordando sempre che sono le donne quelle più coinvolte emotivamente e quelle che poi subiscono in primis la situazione inaccettabile creata dalla presenza degli obbiettori nella sanità pubblica, dobbiamo manifestare e praticare in ogni modo possibile la solidarietà con quante di loro si troveranno nella condizione di ricorrere all’aborto. Dobbiamo però anche sempre tenere conto che in quella sede si sta giocando una guerra che vede schierati assieme stato e chiesa, che vogliono il controllo sociale, con quei medici che sanno benissimo che, per far carriera nella sanità italiana, bisogna obbiettare. Nella suddetta guerra, a latitare, è giustappunto solo la coscienza.
Credo dunque necessaria la richiesta che l’obiezione di coscienza venga impedita per legge.
Piccola postilla.
L’obiezione di coscienza è stata introdotta (teoricamente) per non obbligare a praticare l’aborto i medici già in attività nel momento dell’emanazione della legge 194. Coloro cioè che, avendo cominciato prima il mestiere di chirurgo avrebbero potuto essere contrari alla cosa e non avrebbero avuto possibilità di scelta a posteriori. Considerando però che la legge è stata emanata nel 1978 l’obiezione di coscienza risulta oggi inconcepibile ed è assurdo che valga anche per coloro i quali hanno cominciato ad esercitare dopo l’entrata in vigore della legge. Chi ha cominciato ad operare dopo, infatti, è perfettamente informato di ciò che la legge prevede per il suo ambito professionale.
Inoltre sarebbe anche auspicabile un intervento politico volto ad indirizzare le carriere professionali degli obiettori lontano dalla chirurgia ginecologica.